Bernadette ha tutto per essere felice, apparentemente: una bella famiglia, con un marito che la ama e una figlia modello, appena accettata in un prestigioso college; una situazione di benessere; un’intelligenza brillante; nonché un aspetto affascinante, che cerca lei stessa di dissimulare con grandi occhiali da sole da vamp. Un primo allarme sembrerebbe il contesto, tra una casa vecchia e poco funzionale che lei voleva riadattare e il giardino infestato da erbacce. Fosse solo quello: in realtà, scopriamo subito che Bernadette è anche sociopatica (detesta le mamme della scuola, i vicini, la gente in generale: in genere ricambiata), umorale, piena di fobie. Per esempio, la richiesta della figlia di fare tutti e tre un viaggio in Antartide, come premio per il suo eccellente andamento scolastico, le scatena il panico, che cerca di gestire con lunghe telefonate e mail con la sua segretaria virtuale che dall’India le gestisce tante incombenze, come piccole e grandi spese e prenotazioni di viaggi, ma anche appunto le sue confidenze. Man mano che il viaggio si avvicina, tutto il mondo di Bernadette inizia ad andare in pezzi, e la cosa peggiore è che non può accusare nessuno se non sé stessa. Forse lasciare una grande carriera da architetto (sempre a causa di un errore) e ritirarsi in famiglia, anche per accudire la figlia che da piccola aveva un serio problema di salute, non è stata un’ottima idea: come fare a non esplodere, se hai un potenziale enorme e non riesci a esprimerlo? E soprattutto se la vita ti preme da ogni parte, e neanche l’affetto di chi ti vuole bene basta a vincere le tue nevrosi?
L’origine è il best-seller Where’d You Go, Bernadette di Maria Semple, che è anche il titolo originale del film (ovvero: Dove vai Bernadette?), peraltro ripubblicato ora da Rizzoli in una nuova versione italiana proprio come Che fine ha hatto Bernadette? e foto di Cate Blanchett in copertina. Il libro ha una struttura moderna e accattivante, fatta di testi di mail, lettere, sms, biglietti: non solo della protagonista ma anche delle persone che le girano attorno e anche di personaggi minori. Il film, diretto da Richard Linklater (autore, tra gli altri, di film indipendenti come la trilogia Prima dell’alba/Before Sunset/Before Midnight, dello sperimentale Boyhood ma anche del divertente School of Rock), cerca di riprodurre la brillantezza nervosa della scrittura, soprattutto nei dialoghi e nelle mosse di Bernadette Fox, ben interpretata da Cate Blanchett (candidata al Golden Globe). Ma ci riesce solo in parte, trasformando gran parte dei testi in dialoghi – piuttosto canonici, che perdono gran parte del mordente – e non provando mai a riprodurre la forma di tali messaggi; ed è strano, se pensiamo che ormai da tanti anni vediamo sempre più spesso messaggi che compaiono sul grande schermo a simulare i dialoghi virtuali con il cellulare o altra forma di comunicazione. Insomma, i problemi qui partono dall’adattamento e dalla scrittura (la sceneggiatura è firmata da Linklater insieme a Holly Gent e Vince Palmo).
Dopo una prima parte introduttiva, che presenta i personaggi, il film inizia ad acquistare interesse con la fuga di Bernadette: scopriamo che il matrimonio è andato lentamente alla deriva (bella la scena con il doppio sfogo: lei con un ex collega, il marito con una psicologa) pur senza deflagrare, che il suo grande amore per la figlia è percorso da tante paure mai risolte e che la fine brusca e traumatica, per quanto voluta (e mai raccontata alla figlia), della sua carriera da architetto – con tanto di abbandono di Los Angeles per rifugiarsi nella tranquilla e soffocante Seattle – ha lasciato strascichi destinati a riemergere all’improvviso. La causa scatenante è una banale lite con la vicina di casa (la sempre brava Kristen Wiig), ma dietro c’è molto altro, compresa la gelosia per una nuova collega del marito. Tutti elementi non nuovi (quante storie di famiglie anche con crisi peggiori abbiamo visto sugli schermi?), ma che danno luce ai diversi personaggi e caratteri: in particolare al marito Elgie (Billy Crudup), buono e sofferente, e alla figlia Bee (Emma Nelson) che non perde mai la fiducia nella madre e che la difende con tutti. Un bel rapporto madre-figlia, abbastanza inedito, di complicità, alleanza, sostegno reciproco. Che pure non basta a non far esplodere il “caso”. E qui sta il primo problema: il film non riesce a non farci sembrare un po’ esagerati tutti i segnali di “crollo” (in tutti i sensi), tanto che viene più da sorridere che da preoccuparsi.
Ma le vere perplessità arrivano dalla parte finale – preceduta dalla brutta scena che precede la fuga, con una specie di “processo” a Bernadette da parte di marito, psicologa e agente dell’FBI – quando il film perde decisamente il controllo, seppur prendendo aria e colore uscendo dall’odiata Seattle e grazie agli splendidi scenari del Polo Sud; dove la donna cerca sé stessa, secondo un classico dei film di “fuga”. Le motivazioni e le urgenze della protagonista sono reali, ma purtroppo ci toccano fino a un certo punto. Mentre l’evoluzione della storia lascia perplessi, quando le implausibilità aumentano (dall’altra parte del mondo niente è scontato, ci viene detto e ripetuto, eppure…). E la chiusura – per quanto “graziosa” – è proprio forzata e fonte di un certo imbarazzo: se la vedrete, difficile non sorridere della soluzione escogitata letteralmente “telefonata”. Nel libro non c’era, e la cosa non ci sorprende. Rimane un film discreto e simpatico. Che lascia però più di un’impressione che dal materiale di partenza, e dal bel personaggio di Bernadette, si potesse ottenere molto di più. Ovvero un’opera capace di farsi ricordare.
Antonio Autieri