Busacca e Jacovacci sono diversi, forse agli antipodi. Un elettricista milanese belloccio e irruento il primo, un sedicente parrucchiere romano goffo e paffuto il secondo. Li accomuna la divisa dell’esercito italiano, il destino di una vita in trincea per fronteggiare tedeschi e austriaci durante il primo conflitto mondiale e la forte attitudine alla cialtroneria, il guardare la guerra non come una missione ma come un intralcio da superare indenni, cercando di arrangiarsi per portare a casa la pelle e, se possibile, di non fare troppa fatica. I due si conoscono durante la chiamata alle armi, ed è subito amore-odio: Jacovacci è già soldato e promette all’altro, mentendo, di farlo esentare dalla leva. Finiranno entrambi al fronte a combattere una guerra che, è chiaro sin da subito, non è la loro. Non sono eroi, ma poveracci e fifoni che si trovano a condividere la stessa tragica esperienza, assieme ad altre migliaia di persone provenienti da tutta la Penisola: la guerra è il primo evento che ravvicina e unisce un’Italia ancora giovane (e nei primi minuti sono cinque o sei i dialetti differenti che sentiamo incrociarsi), il nemico non è il loro nemico, se mai un avversario cui contendere una gallina, da guardare perfino con umanità (memorabile la scena del soldato austriaco sorpreso durante la pausa: “facciamogli almeno finire il caffè” commentano i due per ritardare lo schiocco del proiettile) riconoscendo dall’altra parte del campo di battaglia altri poveracci come loro. I due sono protagonisti di tragicomiche avventure segnate da un continuo moto di attrazione e repulsione (si stuzzicano, si sbeffeggiano, ma sono sempre uno di fianco all’altro), sullo sfondo di un conflitto del quale non è risparmiato niente, dagli aspetti cruenti a quelli di eterno stallo e logorio, un “lungo ozio senza un minuto di riposo”, in un film di guerra sporco e fangoso come pochi.
Se nella storia del cinema gli elogi eccessivi si sprecano con troppa facilità, mai come in questo caso siamo sicuri di trovarci davanti a un capolavoro. Per la scrittura (la collaudata coppia Age e Scarpelli, marchio di garanzia sulla commedia italiana per mezzo secolo) dalla quale discendono personaggi che celano una profondità insolita dietro la maschera di buontemponi, dando origine a figure più sfaccettate, anti eroi che vivono alla giornata ma capaci di insospettabili gesti d’onore per difendere non solo la patria ma la loro irriducibile dignità umana. Per una sceneggiatura vivace che non dà tregua, dove si ride e si ride tanto, ma ai momenti comici si alternano impennate drammatiche (eloquente la scena del treno/ambulanza che irrompe in scena interrompendo con un inquietante silenzio i discorsi spensierati dei protagonisti) e per quel generale tono agrodolce che stempera il sorriso con la malinconia (e riverberi di quello stile rispunteranno qua e là nei successivi decenni in tanti comici del grande schermo, da Troisi a Nuti passando per Verdone soprattutto). Per l’interpretazione del duo Gassman-Sordi nel pieno della loro forma, circondati da un cast di assoluto rispetto (Silvana Mangano, Folco Lulli, Romolo Valli). Per la regia, che miscela senza fratture i topos della commedia con pure sequenze da film di guerra, facendo Cinema con la “C” maiuscola perché capace di generare racconto attraverso le immagini. La Grande Guerra è dunque una pietra miliare della storia del cinema italiano, un’opera che fu da subito un successo soprattutto Oltralpe e Oltreoceano (Oscar come miglior film straniero nel 1960), riportando in auge la nostra filmografia dopo i fasti della fortunata parentesi neorealista e dando il la alla lunga e gloriosa stagione della commedia all’italiana che esploderà nei successivi decenni in una miriade di sottogeneri e derivati in mezzo ai quali si sarebbero distinte decine di film immortali.
Pietro Sincich