Sono inseparabili, Saroo e il fratello maggiore Guddu che va in giro a procurarsi cibo e beni (anche rubando) da scambiare o vendere per sostenere la famiglia, con una madre “bellissima” e sola che tira a fatica tre figli (c’è anche una bimba piccolissima) dentro una baracca in un villaggio nell’India più povera (la vicenda prende le mosse nella provincia di Khandwa). Una notte Guddu vorrebbe andare da solo, per muoversi più agilmente, ma Saroo non sente ragioni e lo segue: per lui quelle sono avventure fantastiche, cui non intende rinunciare. Il fratello va a cercare balle di fieno da portare a casa, ma Saroo crolla dal sonno e si ferma a dormire su una panchina, in una stazione ferroviaria. Dovrebbe star fermo ad aspettarne il ritorno, ma quando si sveglia il piccolo si spaventa e sale sul primo treno che vede passare. Che lo porta dalla parte opposta, a 1600 chilometri di distanza, in una metropoli enorme e caotica come Calcutta: solo, impaurito, lontanissimo da casa. Mentre la famiglia non sa dove trovarlo. Saroo non sa spiegare a chi lo trova – non conosce il bengalese, oltre tutto – da dove provenga. Finirà in un orfanatrofio e quindi adottato da una coppia di coniugi in Australia, che lo accolgono e lo amano. Nel tempo, sempre più sereno dopo il primo traumatico impatto (però con un altro fratello adottivo, arrivato dopo di lui, ben più problematico). Ma vent’anni dopo, le immagini della sua infanzia e il desiderio di conoscere le proprie origini riesplodono. Perché non tentare con Google Earth, gli suggeriscono gli amici? Trovare quella stazione, quei luoghi, sembra una ricerca impossibile, e infatti i suoi umori e i suoi equilibri sono messi a dura prova.
Basato sul romanzo autobiografico di Saroo Brierley La lunga strada per tornare a casa, il film diretto da Garth Davis ha i pregi e i difetti di tante opere analoghe: la storia vera e incredibile emoziona senza dubbio (oltre tutto il piccolo Sunny Pawar, che interpreta Saroo da piccolo, strappa il cuore), ma c’è anche il rischio del “ricatto” emotivo. Ma se il protagonista (da grande) Dev Patel sembra abbonato a certe produzioni “edificanti” – da The Millionaire, che era peraltro un gran film, a L’uomo che vide l’infinito che era cinematograficamente più piatto – la storia è irresistibile: prende da subito lo spettatore e non lo molla più. Ci sono, inoltre, molti aspetti sicuramente sinceri: la descrizione realistica della povertà del contesto in cui è nato Saroo, il suo sguardo smarrito e impaurito, la bella famiglia che lo accoglie (bravissima Nicole Kidman, in una delle sue prove più toccanti, grazie a un personaggio di madre ben scritto e davvero indimenticabile), le differenze con l’altro fratello adottato che non riesce a vivere con serenità la sua vita. Nella parte australiana il film usa qualche convenzione di troppo (ma tutto il film è disseminato di piccoli “trucchi”), a cominciare da una storia d’amore – con Rooney Mara nella parte della dolce fidanzata del protagonista, che oscilla tra entusiasmi e disillusione – non particolarmente originale.
Il finale però, seppur preparato da una svolta brusca e poco credibile per come ci viene mostrata, chiude il cerchio in modo bello e vero, sicuramente toccante grazie anche agli inserti dei “veri” personaggi della storia (come sempre più spesso si usa). Non sarà dunque un capolavoro, Lion, ma un buon film “popolare” come quelli di una volta, che racconta – con qualche cedimento retorico – una storia incredibile e che è bello aver scoperto. Con il tocco di classe di svelare alla fine il significato del titolo, fino a quel momento enigmatico.
Antonio Autieri