Marnie non è tra le opere più ricordate di Hitchcock, complice forse una tiepida accoglienza da parte della critica (dovuta per lo più a imperfezioni dal punto di vista tecnico) al momento dell’uscita: eppure, è oggi considerato dai più l’ultimo capolavoro del regista. La storia ruota attorno al personaggio di una giovane donna fortemente disturbata, affetta da cleptomania e inspiegabilmente disgustata dall’altro sesso, al punto da non poter sopportare di essere anche solo sfiorata da un uomo. Dopo ogni furto, compiuto sempre sul luogo di lavoro, Marnie cambia identità e si trasferisce altrove. L’editore Mark Rutland la assume come segretaria, pur sospettando della sua disonestà. Quando coglie la donna con le mani nel sacco, le propone un accordo: egli non la denuncerà, se accetterà di diventare sua moglie. Le complicazioni della malattia mentale di Marnie si incrociano così con il desiderio opprimente ed esclusivo di Mark.,Leggenda vuole che nella rappresentazione di una passione ossessiva nei confronti di una donna respingente, il regista abbia trasposto sullo schermo la sua attrazione per la nuova musa Tippi Hedren, con la quale sorsero forti litigi sul set. Vere o false che siano queste voci, certo è che si tratta di uno spunto narrativo già incontrato in almeno un altro film di Hitchcock, La donna che visse due volte (1958): entrambe le storie mostrano un uomo che cerca ardentemente di possedere una donna misteriosa e inconoscibile, non per amore, ma per una sorta di fascinazione patologica nei confronti di una sua peculiarità (in questo caso, l’essere ladra). Come nel film del ‘58, anche qui la macchina da presa gioca col tema della passione morbosa: nelle prime inquadrature va ad indagare con attenzione feticistica il contenuto della borsa di Marnie, poi si compiace di registrare ogni movimento della donna durante i cambi d’abito e più di una volta, nel corso del film, la riprende dall’alto, a distanza ravvicinata, come fosse una persona che le sta col fiato sul collo. De La donna che visse due volte ritroviamo anche l’uso simbolico dei colori verde e rosso (qui, tuttavia, meno accentuato): il primo, a evocare la fragilità e l’imperscrutabilità della protagonista, il secondo, la violenza che ne rompe l’equilibrio interiore. Un altro importante riferimento a precedenti film del regista è costituito dal tema del rapporto con la madre, riscontrabile in Notorious, l’amante perduta (1946), Psyco (1960) e Gli Uccelli (1963). Questi continui rimandi spinsero i critici a tacciare Marnie di autoreferenzialità. Altre accuse riguardarono l’impostazione psicologica un po’ superficiale, l’utilizzo imperfetto degli effetti speciali e un’interpretazione della Hedren considerata non eccelsa.,Le musiche del film sono state composte da Bernard Herrmann, compositore di numerose colonne sonore hitchcockiane, compresa la più celebre, quella di Psyco. Tra gli attori, oltre a Tippi Hedren, troviamo un ottimo Sean Connery nella parte di Mark Rutland, e Bruce Dern in un cameo.,Come in tutti i grandi film di Hitchcock, anche in Marnie ciò che conta non è quello che sembra contare all’inizio del racconto: ci viene fatto credere che al centro dell’intreccio vi sia la cleptomania della protagonista, e la sua abilità nel non farsi scoprire; in realtà, man mano che la storia prosegue, capiamo che l’argomento principale è un altro, relativo al rapporto malato tra i due protagonisti. Una volta rinvenuta l’irrilevanza del contenuto concernente i furti di Marnie, chi guarda è obbligato a rimanere vigile per tutta la durata della pellicola e cercare gli indizi disseminati da Hitchcock a indicare il vero fulcro della storia: lo spettatore, osservatore privilegiato di una narrazione i cui connotati sembrano via via mutare, è chiamato così a partecipare attivamente al film, in un dialogo costante con il regista. Anche le imperfezioni tecniche scompaiono, in presenza di una tale lezione di cinema.,Maria Triberti,