In Un divano a Tunisi vediamo Selma, psicologa di 35 anni, che da Parigi torna a Tunisi per aprire un suo studio. È circondata dallo scetticismo prima dei suoi parenti e anche dei possibili pazienti. Lentamente, però, le cose cambiano e il suo studio comincia a essere frequentato da tante persone, ognuna con un suo problema. Tra difficoltà burocratiche e sedute terapeutiche, Selma riesce ad andare avanti anche se non tutto va nella direzione da lei sperata…
Manele Labidi, regista franco tunisina, esordisce nel lungometraggio con una commedia dalle venature malinconiche. Un divano a Tunisi parte da uno spunto di cronaca. Dopo la rivoluzione dei gelsomini che dette vita alla primavera araba del 2010-2011, la Tunisia ha vissuto un periodo di grande diffusione della psicanalisi. È in questo contesto che vediamo la protagonista Selma (molto ben interpretata dalla lanciata Golshifteh Farahani, attrice iraniana trapiantata in Francia e che non può tornare in patria perché invisa al regime) muoversi con il suo studio. Ma ci sono diffidenze reciproche e pregiudizi da superare. Per prima cosa quella dei tunisini verso una disciplina occidentale e per chi «è senza Dio», ma anche quelle di una ragazza che viene da Parigi e che fatica a entrare nella mentalità locale, fuma molto, è scostante e superba. Una ragazza che è figlia di un esule, di un emigrato e come tale guardata con sospetto. Ma anche con invidia, come le confessano la giovane cugina e la zia che immaginano Selma a Parigi vivere libera, felice e senza costrizioni. Quando però le distanze cominciano a ridursi, il successo che lo studio di Selma ottiene è il simbolo di un cambiamento di mentalità; ma anche del bisogno di un Paese di cominciare a raccontarsi e a farlo in forme nuove che non siano solo il dialogo con l’Imam locale. Una società che si rimette in moto dopo l’abbattimento del regime e che si porta dietro insicurezze e problemi tipici anche dell’Occidente. Sono tanti i personaggi che transitano dal divano di Selma, ognuno con una sua problematica che mai avrebbe pensato di confessare; vediamo la parrucchiera che ha problemi con la madre, il panettiere che si interroga sulla propria identità sessuale, l’imam che forse ha smarrito la fede.
L’intento di Labidi non è solo quello di parlarci della psicanalisi (le sedute, tra l’altro, sono descritte molto bene) ma quella di allargare lo sguardo sulla società tunisina ancora disorientata dopo la rivoluzione. C’è poi un aspetto malinconico che riguarda la solitudine di molti dei personaggi ma anche della stessa Selma che si trova a interrogarsi sul perché della sua scelta durante un dialogo immaginario con Freud; il silenzio del padre della psicanalisi alla confessione di Selma è emblematico, quasi a sottolineare che forse neanche la psicanalisi può dare delle risposte risolutive ai nostri dubbi. Un divano a Tunisi scorre via senza intoppi; peccato per un finale frettoloso e per una caratterizzazione dei vari personaggi, Selma a parte, un po’ troppo poco approfondita. Colonna sonora sulle note di “Città vuota” di Mina.
Aldo Artosin
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