Fin dalle prime scene, su un aereo, ci risulta chiaro chi è l’anziano Willis: un uomo la cui mente vaneggia, che la demenza senile fa uscire facilmente dai gangheri anche con estranei e che disprezza il pur paziente figlio che si sta prendendo cura di lui. Per il povero John, che da piccolo sembrava aver un bel rapporto con il padre, le cose si sono fatte sempre più angoscianti: l’infanzia fu resa sempre più difficile dal carattere del padre e dalle angherie che infliggeva alla madre (e che a un certo punto lo lasciò, portandosi via i figli); ora, tra malattia del padre e disprezzo non camuffato per via della sua omosessualità (ancor più perché il compagno di John – con cui ha anche adottato una figlia – è di origini asiatiche), va sempre peggio. Fino a quando può resistere John (che porta via il padre dalla sua fattoria, dove non era più autonomo, per accudirlo nella sua casa in California), spinto da un amore filiale che comunque non si può cancellare, mentre i ricordi del passato e gli scontri del presente fanno riemergere tutte le ferite di una vita dolorosa?

Il debutto alla regia di Viggo Mortensen, presentato al Sundance Festival nel gennaio 2020 e poi frenato dalla pandemia, è un dramma quanto mai tradizionale: succede poco, e quel poco ricorda altri film simili sulla malattia senile, sui rapporti tesi tra un padre e un figlio o sull’omosessualità (e assommare tutto quanto insieme non aumenta il tasso di originalità), il tono del film è intimista e quieto ma spezzato dagli scatti d’ira del vecchio Willis o dai brutti ricordi del passato; e i troppi flasback e andirivieni temporali non aiutano, anzi. La regia di Mortensen è trattenuta ma anche con qualche ricercatezza di troppo, da esordiente che vuole farsi apprezzare in fretta. Il suo pregio maggiore è – e sembra ovvio – la direzione degli attori, di cui esalta la bravura: non solo la sua, ovviamente (ma non scopriamo nulla, e certo in altri film ha brillato di più), o della sempre convincente Laura Linney, ma anche e soprattutto quella del vecchio Lance Henriksen (buon caratterista visto in tanti film, tra cui Terminator e Aliens di James Cameron), abile nel rendere le perfidie del vecchio mal vissuto, che gode nel vessare il figlio in ogni modo ma che a tratti suscita comunque pietà, nonostante tutte le sue cattiverie. Ottimo anche il cameo dell’amico regista David Cronenberg (nei panni di un medico beffardamente brusco), con cui Mortensen recitò in A History of Violence, La promessa dell’assassino e A Dangerous Method.

Ma il rapporto tra padre e figlio è, a parte lo slancio finale di John, troppo programmaticamente squilibrato per appassionare: come se, dopo la (lunga) premessa sui caratteri troppo opposti per potersi riconciliare, la sceneggiatura non avesse altro da dire e da mostrare nonostante qualche scena madre – una in particolare, nel finale – fin troppo ben congegnate per risultare memorabile. E infatti, al netto di qualche pregio, nulla fa pensare che Falling sia un film capace di farsi ricordare.

Antonio Autieri

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