Dopo i quattro Oscar di Parasite, arriva sugli schermi italiani a febbraio 2020 l’altro grande successo di Bong Joon-Ho: il suo secondo film Memorie di un assassino, tratto da avvenimenti realmente accaduti, un titolo che già alla sua uscita era stato accolto molto positivamente dalla critica e dal pubblico estero e ora (speriamo) anche da noi.
Siamo abituati a pensare alla Corea del Sud come a un paese pienamente allineato all’occidente industrializzato, con grandi aziende di livello mondiale come Samsung o Hyundai i cui prodotti sono leader in molti campi. Ma negli anni 80 la Corea del Sud ancora era un paese povero che risentiva degli strascichi della guerra con la Corea del Nord, ed era governata da un regime semi-dittatoriale che non aveva ancora concesso libere elezioni, agitando sempre lo spettro di una ripresa del conflitto. Non stupisce quindi che anche i metodi della polizia locale non fossero ancora improntati alle metodiche dei RIS o a quelle di CSI che vediamo in televisione.
Quando, in mezzo ai campi, viene trovato in un canale di irrigazione il cadavere legato di una ragazza violentata, l’investigatore Park Doo-Man (Song Kang-Ho, che rivedremo anche in Parasite), nonostante si vanti di saper riconoscere un criminale semplicemente guardandolo negli occhi, non sa letteralmente che pesci prendere. Lui e i suoi colleghi, di una rozzezza esasperante, sanno solo interrogare amici, conoscenti o vicini, torchiandoli a suon di botte e sperando che qualcuno confessi. Anche il detective Cho, nonostante arrivi da Seul e non approvi i metodi spicci dei suoi colleghi, è molto dubbioso, e i suoi tentativi di indagine scientifica (dipendenti dall’America, i quanto ai tempi in Corea non esisteva laboratorio capace di eseguire analisi del DNA) si rivelano esasperatamente lunghi. Intanto gli omicidi continuano, e i sospettati (minorati psichici, voyeur, o persone fragili), si rivelano tutti innocenti. Anche i tentativi di attirare l’omicida (che predilige assalire donne vestite di rosso in notti di pioggia), usando come esca un’agente donna, si rivelano infruttuosi. A questa frustrazione si somma il malcontento fomentato dagli organi di stampa, pronti a evidenziare tutti i fallimenti della polizia e gli inutili metodi coercitivi (che in alcuni casi sfiorano la tortura vera e propria).
Il film di Bong Joon-Ho si snoda lento e preciso, valorizzando ambienti squallidi, campagne solitarie, periferie industriali caratterizzate da una tavolozza di colori lividi come le facce dei protagonisti, sempre più esacerbate di fronte all’impossibilità di trasformare un capro espiatorio in un vero colpevole; addirittura in conflitto violento tra loro stessi. Ma anche una rivelazione tardiva, che giungerà dopo il 2000, lascia allo spettatore uno scenario tutt’altro che definitivo.
In questo, Memorie di un assassino non può non ricordare Zodiac di David Fincher o La promessa di Sean Penn (tratto da un bel racconto di Friedrich Dürrenmatt). Meno rigoroso forse di questi ultimi, con alcuni cedimenti di inserti umoristici molto fisici, che non alleggeriscono la drammaticità del racconto, ma nel contrasto lasciano disorientato chi non è abituato a certe dinamiche narrative orientali, il film rimane comunque un tappa interessante del percorso del regista, e che aiuta certo a comprendere ancora meglio la continuità con la quale è arrivato a Parasite.
Beppe Musicco