Siamo nel 1920 e Ma Rainey, regina indiscussa della scena blues statunitense, deve incidere il suo ultimo album nello studio della propria casa discografica. Insieme a lei un gruppo di musicisti professionisti, impegnati nella preparazione dei pezzi della cantante. Quando Ma Rainey arriverà allo studio, una serie di contrattempi faranno degenerare la situazione in modo drammatico.

Il problema delle pièce teatrali trasposte per il cinema è che la narrazione, studiata per essere rappresentata secondo codici e linguaggi specifici, deve trasformarsi in immagine, in racconto per schermo, con tutto ciò che ne consegue. La grammatica filmica deve prendere il posto di quella teatrale perché l’opera sia riuscita, e quando ciò non avviene si rischia di scimmiottare il teatro in maniera un po’ grossolana e con scarsi risultati. È fondamentalmente questo il problema di Ma Rainey’s Black Bottom, nuova produzione Netflix diretta da George C. Wolfe (regista, non per caso, soprattutto teatrale) e tratto dall’omonimo testo scritto per il teatro da August Wilson. Le scelte del regista sono singolari: non soltanto vengono mantenute le ambientazioni claustrofobiche e limitate dello studio di registrazione – praticamente unico spazio, insieme a poche altre esterne, a dominare la scena registrazione – ma i monologhi affidati alle (enormi) capacità attoriali degli interpreti sono lunghi, prolissi e completamente fuori dai tempi che la narrazione cinematografica, di norma, richiederebbe di sopportare a uno spettatore.

I dialoghi si perdono dunque in una densità verbale eccessiva, i singoli personaggi risultano comunque scarsamente caratterizzati e lo spettatore è costretto a sorbirsi lunghissimi primi piani durante i quali ciascuno dei protagonisti cerca di raccontare la propria storia. Se poi il nucleo centrale di tali racconti batte in modo retorico e obsoleto sul tema del razzismo contro gli afroamericani, il pasticcio è completo.

Persino le enormi prove di Chadwick Boseman – qui alla sua ultima interpretazione prima della recente scomparsa – e Viola Davis vengono sminuite da un ritmo narrativo fondamentalmente sconnesso e dal vuoto di approfondimento psicologico nel quale sprofondano i loro personaggi.

Le atmosfere, i temi e il taglio del film sarebbero quelle giuste per la stagione dei premi, e forse Viola Davis potrà essere la punta di diamante di questa produzione con una possibile candidatura agli Oscar; che fosse questo l’obiettivo della N rossa non ci azzardiamo a ipotizzarlo, sul fatto che possa bastare un’interpretazione fuori dalla norma per rendere il film degno di essere visto non abbiamo dubbi: assolutamente no.

Letizia Cilea