Il piglio dello strabordante regista è sempre lo stesso, l’efficacia nel denunciare i mali della politica americana non sempre. In questo nuovo docufilm, presentato alla Festa del Cinema di Roma ma già uscito negli Usa, Moore (che con Donald Trump se l’era già presa nel precedente Trumpland) parte con l’intento, in sé non banale, di andare oltre la critica all’attuale, contestatissimo inquilino della Casa Bianca, ma di scavare nei mali di una società americana corrotta a vari livelli.
Perché se i democratici che favorirono la nomination di Hillary Clinton contro quella di Bernie Sanders sono da condannare (anche se il “magheggio” sembra talmente plateale che non ci si crede come sia riuscito…), il problema sembra essere però più profondo, almeno secondo Moore, che contesta il sistema di voto che premia non chi conquista la maggioranza degli elettori, ma quella dei rappresentanti nelle varie circoscrizioni. Una vexata questio per altro, già cavalcata al tempo del secondo governo di George W. Bush (contro cui Moore aveva realizzato Fahrenheit 9/11 nel 2004) senza grande seguito nemmeno sotto un Presidente Democratico come Obama.
Per altro non è che gli altri rappresentanti della politica americana siano molto più raccomandabili. L’esempio più lampante è quello del governatore del Michigan responsabile della contaminazione dell’acqua della cittadina di Flint, che per favorire i finanziatori della sua campagna ha finito per intossicare gli abitanti… Questo è, secondo Moore, il mondo dell’era Trump, dove razzisti e xenofobi hanno sempre più spazio.
In questo mare di cinismo e negatività Moore sembra trovare una minima ragione di speranza nei movimenti giovanili che si oppongono alle politiche presidenziali e più in generali agli interessi delle lobby, come quella potentissima delle armi, contro cui si sono mossi i ragazzi dopo l’ennesima sparatoria in una scuola.
Mosso dalla domanda «come è potuto accadere che l’America eleggesse un presidente come Trump?» Moore tesse un ritratto del Paese decisamente negativo, creando connessioni non sempre completamente condivisibili. E tuttavia proprio l’accennata apertura a una pars construens (in realtà un po’ confusa e generica) rappresenta quanto meno un passo avanti rispetto al puro moto di cinismo distruttivo che troppo spesso rappresenta la cifra di Moore.
Per quanto come sempre ben architettato il film è forse troppo lungo, come se, nell’ansia di convincere, Moore avesse voluto mettere anche troppa carne al fuoco. Detto ciò è sicuramente apprezzabile la volontà di indicare non solo i difetti di Trump ma anche i limiti di chi gli si è opposto (fino ad ora con risultati non entusiasmanti), cucendo insieme le voci di un’America che porta in sé le sue contraddizioni, ma anche forse l’antidoto per l’intolleranza e l’egoismo che il suo Presidente troppo spesso abbraccia con entusiasmo.
Luisa Cotta Ramosino