Nella notte in cui svanisce il sogno dell’Italia di vincere i Mondiali di calcio 1990, ovvero nell’esatto momento in cui Aldo Serena (e, prima, Roberto Donadoni) sbaglia il calcio di rigore decisivo in quella maledetta Italia-Argentina, mentre gli italiani sono incollati davanti ai televisori un’auto piomba nel Tevere. Dentro, la polizia ritrova il cadavere di un noto produttore cinematografico, Leandro Saponaro. Ma la morte è antecedente: qualcuno l’ha ucciso? I primi sospettati sono tre giovani aspiranti sceneggiatori, immortalati da una foto trovata nella tasca del produttore scattata poche ore prima e accusati dalla fidanzata del produttore. Ma di nemici, Saponaro, ne aveva parecchi come emergerà dal racconto degli spauriti Antonino, Luciano ed Eugenia al Comando dei Carabinieri. Un racconto di giorni e notti magiche, che parte un mese prima con la loro convocazione da finalisti a un prestigioso concorso di sceneggiatura, e finisce con la disillusione per un mondo che non era come se lo immaginavano.
Presentato come Evento speciale alla recente Festa del Cinema di Roma, Notti magiche di Paolo Virzì non è magari tra i migliori film del regista toscano ma sicuramente descrive bene e restituisce un mondo. Quello del cinema italiano tra fine anni 80 e inizio anni 90, proprio quando Virzì iniziava a muovere i suoi primi passi come sceneggiatore e aspirante regista. Non è un film strettamente autobiografico, anche se uno dei tre giovani sceneggiatori finalisti al premio Solinas viene da Piombino, vicino alla sua Livorno; piuttosto è probabile che lui e i suoi cosceneggiatori, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, avranno sì messo molto di sé ma anche rubato parecchio da storie altrui, di colleghi dal percorso simili o magari anche che si sono persi per strada.
Il titolo rimanda a quella celebre canzone di Edoardo Bennato e Gianna Nannini che fu l’inno di Italia 90 (si intitolava in realtà Un’estate italiana, ma quel ritornello si mangiò il titolo) e che accompagnò le sorti della nazione italiana lanciata – sembrava – verso la vittoria o quanto meno la finale. Lo spunto calcistico rimane tale, anche se viene da pensare a quanto quell’illusione chiuse malamente l’ottimismo degli anni 80; e si vedono anche gli ultimi fuochi della Prima Repubblica, con leader di partito e politici vari che pochi anni dopo cadranno rumorosamente in disgrazia insieme a un sistema che sembrava solidissimo. La fine di un’epoca, insomma.
Ma è soprattutto l’ambiente del cinema a essere messo al centro della storia. Qui cercano di entrarci i tre aspiranti sceneggiatori, il siciliano colto Antonino, il toscano di ambiente operaio Luciano e la romana, ricca e angosciata, Eugenia: molto diversi tra loro, appunto, per carattere, provenienza sociale e condizione economica. Tutti e tre pieni di sogni tradotti in modo differente – idealista, ribaldo, insicuro – e tutti con il prevedibile rischio di venire traditi da un mondo marcio, eppure ancora glorioso: quello del cinema italiano, che se non è più – come si dicono a cena i vecchi cinematografari, cinici e nostalgici a un tempo – “quello di una volta”, è ancora in grado di vedere sul set Federico Fellini (ma c’è un errore strano, o se vogliamo una licenza poetica: nel luglio 1990 il suo La voce della luna era già uscito da alcuni mesi e poi passato al Festival di Cannes) e lavorare altri grandi registi e sceneggiatori. Un mondo stanco ma ancora vitale, pieno di contraddizioni, che Virzì guarda con la stessa irriverenza di quei grandi, omaggia e fustiga, con il suo umore più portato all’affresco sagace e beffardo che all’indignazione. O se vogliamo, con quella nota di pietà che il “maestro” impersonato – come sempre al meglio – da Roberto Herlitzka cerca di inculcare nei suoi allievi.
Gli autori magari avranno esagerato con le allusioni che possono cogliere solo addetti ai lavori o cinefili più che preparati: si intravvedono, oltre a Fellini, i veri Monicelli e Wertmüller, si citano Ettore (Scola) ed Ennio (De Concini), Gillo Pontecorvo e Mario Cecchi Gori, o il maestro dell’incomunicabilità (che si chiama Pontani, ma parrebbe proprio Antonioni), perfino l’avvocata del cinema italiano Giovanna Cau, e tanti ancora; mentre altri sono un mix di personaggi (lo sceneggiatore Fulvio Zappellini, il regista Fosco reso in maniera sorprendente da Andrea Roncato, lo stesso produttore Saponaro, che Giancarlo Giannini interpreta benissimo?). E poi il premio Solinas, il lavoro di “negri” (ovvero sceneggiatori senza firma per i maestri della scrittura), la trattoria dove si trovavano i maestri di quella stagione, e dove volavano lazzi feroci e scontri epici… Però, se si ha la pazienza di entrare nel cuore del racconto, emerge la natura più intima e personale, quella di chi ha vissuto la fine di una stagione grandiosa e ha avvertito non solo lo sconcerto per la distanza tra il mito del Cinema e una realtà spesso greve (e in effetti alcune volgarità, che possono spiazzare, sono specchio di quel mondo: come l’incredibile attore francese che non si comporta certo come un gentiluomo con la giovane ammiratrice, e poi va subito dopo sul set a recitare una scena emozionante). Ma anche l’apparente contraddizione di un mondo dove coesistevano giganti e nani, grandi autori e personaggi velleitari, e dove produttori come Saponaro realizzavano schifezze capaci di guadagnare un sacco di soldi e capolavori da premio. Chi ne ha un’immagine edulcorata o elitaria, non può che tenersi lontano da un quadro più vicino al vero…
E se il tono generale vira nel finale all’amara disillusione (e questo sembrerebbe strano, se il racconto è anche un omaggio a quel mondo di tre ex giovani che ce “l’hanno fatta”), quella domanda del Capitano dei Carabinieri interpretato dall’ottimo Paolo Sassanelli («saprete raccontare la vita?») non sembra così peregrina. Perché rilancia la sfida su un piano essenziale, per chi fa Cinema, per chi lo giudica e anche per chi lo guarda: a cosa serve questo strumento meraviglioso, fatto da gente spesso umanamente poco simpatica o raccomandabile, se non a guardare e cercare di capire chi ci sta attorno?
Antonio Autieri