Era molto atteso il passaggio alla Mostra del Cinema, in corso di svolgimento a Venezia fino all’8 settembre, dei primi due film italiani in concorso, per quanto girati in inglese e con ambizioni e storie internazionali. Luca Guadagnino lavora all’impossibile e decisamente non necessario remake del Suspiria di Dario Argento. All’inizio la direzione presa sembra quella giusta, più che un rifacimento una libera reinvenzione: la storia decisamente cambiata, una sottotrama interessante di un vecchio professore tedesco, il cambio di ambientazione nella Berlino del 1977, un costesto storico politico ben preciso, la danza non più classica ma contemporanea quindi più viscerale e carnale, “belle” scene di violenza, una buona tensione e soprattutto un’atmosfera diametralmente opposta al barocco visionario di Argento, costruita su un realismo funebre. Il tutto raccontato con uno stile visivo interessante e di classe anche se con diverse sbavature (la lucina di notte, fermi immagine sgranati totalmente a caso) ma aiutato dalle brave protagoniste, Chloe Grace Moretz in un piccolo ruolo, Mia Goth (La cura del benessere), Dakota Johnson e soprattutto Tilda Swinton bravissima in una tripla parte. Poi dopo circa un’ora e mezza (sulla durata extralarge di due ore e mezza: difetto di molti film di quest’anno) nell’ultimo atto e nell’epilogo Suspiria deraglia completamente regalando colpi di scena senza alcun senso, un finale di un sentimentalismo patetico che non c’entra nulla con la storia, senza chiudere nessuna delle numerose interessanti linee narrative aperte. Soprattutto c’è una delle scene più di cattivo gusto (un lungo “sabba”) che si siano viste di recente, una scena “scult” con filtri rossi digitali e musica da teenagers (eppure le ha curate Thom Yorke dei Radiohead) degna del peggior cinema horror di serie z, e forse con ancor meno dignità. Insomma, al momento di tirare le file di quanto fatto Guadagnino non è stato in grado di chiudere il proprio film dimostrando che tutte le numerose belle idee della prima parte erano più intuizioni felici che scelte consapevoli, e si conferma un regista interessante ma tutt’altro che profondo. Ahimè c’è anche una (inutile) scena dopo i titoli di coda che lascia con il tremendo presagio di uno o più possibili sequel. (Riccardo Copreni)
Più rigoroso era, prevedibilmente, il documentario di Roberto Minervini dal lungo titolo: What You Gonna Do When The World’s On Fire? (in italiano Che fare quando il mondo è in fiamme?), ambientato nei quartieri periferici black di New Orleans, tocca temi come il razzismo e le risposte ad esso (si vedono le nuove Black Panthers), le frustrazioni contemporanee dei neri, la miseria economica, il problema dell’educazione dei ragazzi, la droga e il degrado; soprattutto facendo riferimento ad alcuni terribili casi di violenze e omicidi. Tanta carne al fuoco, molti spunti interessanti ma anche l’impressione di un “calderone” (a tratti toccante, in altri momenti un po’ noioso per la ripetitività di gesti ed episodi di trascurabile importanza) in cui non facile cogliere il senso se non una fotografia del caos e del malessere. Con i più – come già nel precedente Louisiana o di tanti altri documentari recenti – l’impressione in alcuni punti di una certa artificialità: la macchina da presa registra conversazioni, feste, litigi, scontri. Ma quasi sempre – a parte nelle manifestazioni, in cui c’è di mezzo la polizia – i personaggi sono evidentemente consapevoli della presenza di chi registra, e in un certo senso “recitano” (alcuni anche bene). Minervini ha stile, in certi momenti anche troppo e così rischia di annacquare l’effetto sul tema, la storia, gli ambienti che dovrebbe mettere in primo piano. (Antonio Autieri)
Meno ambizioni, ma anche più gusto per lo spettatore da Frères ennemis (sempre in concorso) del francese David Oelhoffen, di cui anni fa si vide al Lido il bel Loin des hommes. Storia non originalissima ma intensa di fratelli di origine algerina nella classica periferia su barricate opposte: uno fa il trafficante di droga, l’altro il poliziotto della Narcotici. In realtà i due collaborano, in qualche modo. E di mezzo c’è un terzo, amico (e socio in loschi traffici) del primo ma un tempo anche del secondo. Come sempre in questi film, ci saranno morti, tradimenti, colpi di scena e sentimenti forti. Interpretato da ottimi attori tra cui spiccano Matthias Schoenaerts e Reda Kateb, il film di mostra che il genere polar, qui virato decisamente verso il thriller action, lo sanno fare bene. La tensione non manca, stile e montaggio sono adeguati alla storia; e si esce dalla sala decisamente soddisfatti. E se qualcuno storce il naso per il “genere” in concorso, arriva tardi se pensiamo che ci sono appunto da anni horror, documentari, film animati (mancano ormai solo le pure commedie, chissà perché…). Sarebbe stato bello vederlo in mano a Jacques Audiard, che però ha già fatto Il profeta anni fa… (Ant.Aut.)
A Venezia poi, tra tanti drammi, ogni tanto un piccolo film sconosciuto risolleva, magari a fine giornata. È quello che è succede a chi si imbatte in una piccola ma piacevolissima sorpresa israeliana di cui vi parliamo qui. Lo sceneggiatore-regista palestinese Sameh Zoabi con Tel Aviv on Fire (sezioni Orizzonti) ambienta una commedia spassosa e di gran respiro nel delicato scenario dell’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, presente nella a Venezia. Protagonista è Salam, affascinante ma goffo trentenne palestinese che vive a Gerusalemme, lavora come assistente di produzione sul set di una soap opera palestinese (che dà il titolo al film) prodotta a Ramallah da suo zio, ma per darsi un tono si spaccia all’esterno come sceneggiatore. Ogni giorno, per raggiungere gli studi televisivi, Salam deve passare il rigido posto di blocco israeliano e i controlli di Assi, ufficiale dell’esercito israeliano che, per far colpo sulla moglie fan della serie, comincia a imporgli alcune scelte narrative e un finale a sorpresa in totale contrasto con le idee dei finanziatori arabi… Commedia divertente e gradevole, il film analizza il complicato rapporto tra israeliani e palestinesi con un’ironia tagliente e attraverso lo sguardo di un gruppo di personaggi decisamente spassosi. Lo scenario narrativo è perfetto per mettere in evidenzia i reciproci pregiudizi degli uni nei confronti degli altri, senza che l’ironia sminuisca la portata del delicato contesto. Ma anzi, difatti, sfruttando la comicità per trattare il conflitto da prospettive divergenti, introduce lo spettatore in una realtà complessa, dove si parla di politica, risentimento e pregiudizio con intelligenza e leggerezza. E auspicando una comprensione reciproca. (Marianna Ninni)