Luciano è un napoletano simpatico, dalla battuta pronta e dalla verve evidente. Alle feste di famiglia si esibisce sempre, per la gioia di parenti e amici; e anche con i clienti della sua pescheria, volentieri si lascia andare grazie alle sue doti trascinanti. Quando a un matrimonio, un reduce dal Grande Fratello televisivo viene ospitato come una star, in Luciano scatta un desiderio di emulazione. E la spinta dei figlioletti e di altri parenti (madre, fratello, zie, nipote), con la parziale eccezione della moglie che pure inizialmente non si oppone, lo convince a provarci. Prima un provino strappato a forza, a tempo scaduto, in un centro commerciale della sua Napoli; poi il “viaggio della speranza” a Roma, a Cinecittà, dove migliaia di persone sono in coda e sperano di entrare nella “Casa”. Il provino è andato alla grande: così pensa Luciano, e così rassicura i suoi fans di famiglia. Ma allora perché non lo chiamano? E perché sempre più spesso ha l’impressione che venga spiato da persone mai viste? Che siano emissari del programma tv, impegnati nello studiare ogni dettaglio della sua vita?,Non era facile per Matteo Garrone tornare al cinema dopo il grande successo di Gomorra, il bel film tratto dal bestseller di Roberto Saviano che nel 2008 mise d’accordo tutti: al festival di Cannes vinse il Gran Premio Speciale della Giuria, in Italia ottenne un clamoroso e sorprendente successo di pubblico (per un film lungo, complesso, con una struttura a episodi senza un unico protagonista e soprattutto con numerose parti in stretto dialetto napoletano “servite” con i sottotitoli) e all’estero fu molto apprezzato. Si parlò anche di Oscar, dopo i complimenti di Martin Scorsese e della comunità cinematografica di New York. Ma a Los Angeles, invece, non gradirono molto.,Dopo lunghe riflessioni, a quattro anni di distanza si è ripresentato a Cannes con Reality, dove a maggio 2012 ha vinto ancora il secondo, prestigioso premio, appunto il Gran Premio Speciale della Giuria. Ma stavolta, con qualche perplessità dei critici stranieri (si è alluso alla forte influenza del presidente di giuria Nanni Moretti, che “scoprì” Garrone a inizio carriera premiando un suo corto con il suo premio Sacher) e anche italiani. Le aspettative post Gomorra erano forse troppo forti.,E invece Reality è un film bello e importante, anche inquietante, sulle conseguenze che la ricerca della celebrità hanno su un povero diavolo. In realtà il Grande Fratello è un pretesto, anche se si vede parecchio (e nel finale decisamente da vicino); e sicuramente la critica a quel modello televisivo non è aliena da Garrone e dai suoi cosceneggiatori Massimo Gaudioso, Maurizio Bracci e Ugo Chiti che già avevano lavorato insieme a lui per Gomorra. Il felice titolo infatti allude ovviamente ai reality show ma ci introduce al vero tema dell’opera: la perdita del senso della realtà per il protagonista Luciano. Che nella sua terribile ossessione confonde la realtà con la sua apparenza e poi sempre più con la sua immagine deformata da sospetti allucinati, e che inizia a perdere tutto quello che ha e che faceva parte della sua vita. A cominciare dai rapporti: e le figure della moglie Maria e dell’amico “religioso” Michele sono toccanti nel mostrare come gli affetti più profondi non riescano a incidere nel cuore di Luciano. ,Garrone si conferma regista dall’immaginario potente, in questa storia a metà tra la favola e l’incubo che oscilla tra Fellini e un Paese dei Balocchi contemporaneo (grazie anche alle musiche, fondamentali nel film, del grande Alexandre Desplat, autore di quelle di The Tree of Life). Ma l’autore, nonostante tanti riferimenti (sono stati citati anche Bellissima, Matrimonio all’italiana e tanti film di ambiente napoletano) riesce a mantenere un’impronta tutta sua, mai così forte nelle precedenti opere. Colpisce per esempio l’attenzione alle scenografie, eloquenti e in grado di raccontare un mondo – si pensi all’iniziale festa di matrimonio – ma anche la capacità di narrare attraverso i movimenti di macchina (l’incipit con la carrozza degli sposi che attraversa i viali della città, lo stringere sul volto angosciato e teso del protagonista) e con un’ottima capacità di dirigere gli attori. E anche di scoprirli: e qui occorre spendere una nota particolare per Aniello Arena, attore che viene dal teatro “carcerario” come già gli interpreti di Cesare deve morire dei Taviani. Pluriomicida ed ergastolano, in un’altra vita, Arena si trasforma nelle mani di Garrone in un personaggio tra Totò, Pinocchio – c’è anche un “grillo”… – e il De Niro giovane (e il finale sembra una citazione evidente di C’era una volta in America), entusiasta e gioviale prima quanto sospettoso e ossessivo poi, in un finale (allucinato o onirico?) che lascia l’amaro in bocca per la deriva di questa “favola” nera. Quanto a Garrone, ormai è una certezza: pur non al livello di un capolavoro come Gomorra, insieme a Paolo Sorrentino è il miglior autore italiano contemporaneo.,Antonio Autieri