Film calligrafico, perfetto nella messa in scena, diretto con equilibrio ed astuzia da un regista dalla esperienza più che trentennale, Buongiorno, notte presenta pregi e difetti di molte delle opere del suo autore, Marco Bellocchio. Da un lato, una scrittura attenta ed una cura formale anche eccessiva, dove nulla è per caso ma tutto è soppesato come in un delicatissimo equilibrio di forme. Dall’altro, un autore narciso, che non smette mai di ricordare la sua presenza (come nel cammeo, insopportabile, della riunione esoterica), e la cui presenza ingombrante danneggia alcuni (pur) buoni momenti. Sullo sfondo, una storia ben cucita intorno al personaggio interpretato dalla bravissima Maya Sansa, attraverso i cui occhi passa un pezzo di storia d’Italia. E’ lei la cosa migliore del film, anche perché il giudizio sul terrorismo tanto apprezzato dalla critica, non ci pare così originale. Lo scavo delle ragioni della lotta terroristica è superficiale, così come sono semplici figurine i personaggi al fianco della Sansa (compreso il capo banda, interpretato da un inefficace Luigi Lo Cascio). Sofferto e notevole come sempre Roberto Herlitzka, nei panni dello statista democristiano rapito. Cui viene regalato nel finale un’impossibile liberazione: un sogno, un’utopia, un’illusione? Sicuramente, raccontando una storia così tragica per il nostro paese, una “licenza poetica” alquanto ardita. Ma il film, storicamente, si prende alcune libertà di troppo (come il biglietto del presidente del Consiglio Giulio Andreotti a papa Paolo VI, che gli ordina cosa dire nel celebre appello “agli uomini delle Brigate Rosse”).

Politicamente molto corretto, Buongiorno, notte è un film che affonda poco e rischia nulla in giudizi provocatori: dal terrorismo alla fine dell’ideologia, allo stesso Moro, tutto è guardato con trasporto nostalgico se non con una simpatia che però nasconde vere ragioni di fondo. Solo la Chiesa, ovviamente, ne esce male. Per questo, forse, si sono innalzati così tanti osanna. Fece scalpore la tanto attesa ma non arrivata vittoria alla Mostra di Venezia, con ben due italiani in giuria: Stefano Accorsi e, soprattutto, il presidente Mario Monicelli; si disse che il regista piacentino gli stesse sull’anima, o più probabilmente che le loro posizioni politiche molto distanti avessero pesato. La verità è che il film russo Il ritorno (opera prima, peraltro), premiato con quel Leone d’oro cui aspirava Bellocchio, era un film molto più bello e originale.

Antonio Autieri