Come in altri film tratti dai racconti di spionaggio di John Le Carré (chi non ricorda il bellissimo La talpa?), su tutta la storia de La spia aleggia un’aria di tristezza e disincanto. Ambientato ad Amburgo, città portuale che di certo non è famosa per i cieli azzurri, il film permette al regista Anton Corbijn di usare tutta la sua grande tecnica fotografica per rendere un’immagine fredda e malinconica della città e dei protagonisti del film, uomini dello spionaggio abituati a tutti i compromessi e voltafaccia, capeggiati da Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffman). Se tutto il cast del film è assolutamente di prim’ordine tocca spendere qui qualche parola su Hoffman, visto che questo è stato il suo ultimo ruolo completato prima di morire. Ancora una volta, non si può che restare ammirati dalla “gravitas” con cui l’attore americano interpreta un uomo che svolge un’attività segreta, che lo porta a contatto con le peggiori manifestazioni dell’animo umano, eppure riesce a mantenere una dignità e un senso dell’onore che tutti sembrano ormai aver totalmente dimenticato.

Il film si apre con l’arrivo clandestino di Issa Karpov, un ex combattente ceceno dal passato misterioso ma con un grosso capitale; la mente e il corpo segnati da molte cicatrici, a testimoniare la detenzione nelle galere russe. Nonostante Issa giochi il ruolo centrale attorno al quale tutto ruota, nel film appare sempre di sfuggita e parlando pochissimo, sovrastato com’è dalle oscure e complicate manovre dei servizi segreti tedeschi e americani, ma soprattutto dalla figura di Günther, che sembra portare come un Atlante dalle spalle curve e la testa ciondolante, il peso delle scelte politiche tanto azzardate quanto incoerenti dell’intero Occidente. I giochi di potere, accentuati dalla presenza di un accondiscendente avvocato (Willem Dafoe) e dalla responsabile dei servizi segreti americani (un’inquietante Robin Wright dall’acconciatura quasi hitleriana), rendono ancora più angoscianti i movimenti di Issa e del suo avvocato (Rachel McAdams), che vanno via via ad assomigliare a quelli di una cavia da laboratorio in un labirinto senza possibilità di uscita. Come in ogni bella storia di Le Carré, tutto è molto complicato e niente è mai quello che appare, ma nella splendida scena finale ogni pezzo mostrerà tragicamente qual è il posto che gli compete, lasciando Bachmann ancora più drammaticamente solo ed estraneo a quell’ambiente che credeva di poter conoscere e controllare.

Beppe Musicco