Sgomberiamo il campo dagli equivoci o da pregiudizi di sorta. Non siamo omofobi. E nemmeno così bigotti da chiudere gli occhi e trattenere il respiro di fronte a un film dalla tematiche omosessuali. Ci mancherebbe altro. Abbiamo amato e amiamo ancora, pur non condividendone scelte e passioni, tanti di quegli artisti e registi omosessuali che il nostro corredo cinefilo – se si potesse fare un esame genetico- cinematografico – ci spingerebbe più dall’altra parte, “maledetta” del fiume che non sulla parte “onesta”. Semmai, quello che proprio non sopportiamo è l’ideologia, lo schema astratto applicato a una realtà che, provvidenzialmente, rifugge da qualsiasi etichetta. E se proprio dobbiamo prendere una posizione, stiamo proprio dalla sua parte, dalla parte della realtà drammatica e sfuggente alle classificazioni e dalla parte degli uomini che pur con tutti i loro difetti e meschinità, la popolano in cerca di un senso. Tutti gli uomini, senza differenza alcuna tra identità o appartenenza: maledetti e benedetti, santi e peccatori, preti e pedofili (che, a differenza di quanto professato da certo cinema non sono sinonimi). Chiediamo a loro una serietà senza compromessi di fronte al mistero della vita e del cuore dell’uomo. Insomma, il dramma dell’uomo contro il potere di un’ideologia astratta e violenta che vorrebbe rendere tutto uguale. E soprattutto, vorrebbero rendere tutto uno strumento, senza coscienza, senza libertà. E’ per questo che non amiamo, anzi ci arrabbiamo con I segreti di Brockeback Mountain. Perché Ang Lee non ha realizzato come promesso (e come prometteva la sua filmografia fatta di opere delicate, eleganti e leggere, come La tigre e il dragone) un inno a alla libertà sessuale in un tempo (gli anni ’60), in un luogo (l’America bigotta della provincia) e in un genere (il western), in cui vigevano moralismo e perbenismo. Il regista di Banchetto di nozze ha concepito e diretto un film ideologico, politicamente correttissimo, bagnato dagli entusiasmi della critica italiana e internazionale (e infatti il film dopo aver vinto il Leone d’oro a Venezia e fato incetta di Golden Globes, il film si appresta a vincere qualcosa di importante anche agli Oscar). Un film in cui la libertà intesa nella sua accezione più superficiale (la libertà come opzione, come scelta) è proprio il fattore che più evidentemente è schiacciato dalla vis ideologica di chi ha la pretesa di stare dalla parte della ragione, della tolleranza, della libertà. Senza possibilità di dialogo. E così, eccoci di fronte più che a un film sul dramma di un amore, a un santino dell’omosessuale (i due cowboy sono – manco a dirlo – belli, simpatici, brillanti (e bravissimi, perché – va detto – i due protagonisti sono molto in gamba); l’agiografia di due martiri per la fede, novelli Galileo paladini della libertà di espressione contro una comunità bigotta intollerante. Ma la partita è falsata, non reale, perché si gioca a un’unica porta: di fronte all’amore contrastato e impossibile dei due cowboy, l’alternativa per il pubblico in sala prende il volto ora di un suocero insopportabile e arrogante; ora di una stupida e rompiscatole; ora di figli che passano il tempo a piangere; ora di un padre violento che nemmeno dopo la morte del figlio sa accettare la “diversità” del suo ragazzo. Insomma, come dare torto ai due protagonisti, che si prendono annualmente una “vacanza” dalle responsabilità, dalle fatiche di una vita normale grigia, ingiusta, senza prospettive ? Ma il torto glielo diamo, e anche volentieri, perché non è vero. Non è vero che la famiglia regolare sia solo un peso e un ostacolo alla realizzazione dei nostri desideri. E, forse, a dispetto dei luoghi comuni, non è nemmeno vero che i suoceri siano figure così oscure e miopi. E, forse, non è neanche troppo vero questo amore bucolico dei due cowboy, troppo astratto, utopico e idealizzato per essere vera carne e vero essere. ,

Simone Fortunato

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