Sembrano tornati i tempi in cui il cinema metteva in scena la vita quotidiana. La famiglia, il lavoro, la società sono alla base del film più bello e più applaudito del festival di Venezia: “Cous Cous” di Abdellatif Kechiche, un’opera intensa e piena di vita che ha saputo commuovere raccontando una storia semplice. Slimane Benji è un uomo di sessant’anni. Dopo una vita legata al pesante lavoro portuale si ritrova messo in disparte, liquidato con un pensionamento anticipato. A casa lo attendono le sue due famiglie: una numerosissima, da cui ormai si è allontanato, e l’altra composta dalla nuova compagna e da sua figlia quindicenne. Diviso negli affetti, l’uomo ha ancora un desiderio: poter costruire qualcosa per i figli, qualcosa capace di riunire la sua grande famiglia e dare una nuova speranza. Così decide di comprare «La source», un battello su cui installare un ristorante di pesce e couscous, piatto forte dell’ex-moglie: nell’impresa è aiutato da tutti i figli che si trasformano in manager, manovali, pittori, camerieri, cuochi e perfino splendide ballerine della danza del ventre. Tutto succede all’interno della comunità magrebina di Sète, vicino a Marsiglia, ma potrebbe essere la storia di ciascuno di noi, di ogni uomo che, nonostante gli sbagli commessi, decide di realizzare l’ultimo desiderio prima di sparire, di ricomporre un’unità – e quindi una felicità – che sembrava perduta.,Kechiche, tunisino d’origine ma ormai stanziato in Francia, ha la forza di ritornare alla dimensione etica costruendo un film paragonabile ai capolavori del neorealismo italiano. Il padre sofferente non ha nulla da invidiare ad Antonio Ricci di “Ladri di biciclette” e le immagini, che sembrano strappate alla realtà, finiscono per profumare del prelibato manicaretto. Una sensazione di immediatezza nata da un lavoro attento e puntiglioso che il regista, già noto al pubblico per aver descritto con delicatezza una storia d’amore adolescenziale nelle banlieu parigine in “La schivata”, ci racconta con fervore e passione.,Daniela Persico