In un futuro prossimo, mentre la Terra subisce inspiegabili tempeste elettromagnetiche, l’astronauta Roy McBride è incaricato di rintracciare una spedizione spaziale guidata da suo padre e scomparsa vicino a Nettuno da circa 20 anni, che sembra essere proprio la causa delle tempeste. Per fare questo lo aspetta un lungo viaggio verso le stelle, che lo porta prima sulla Luna, poi su Marte e infine agli estremi confini del sistema solare. Ad ogni tappa emergono nuovi nemici e nuove ostacoli, e il mistero della scomparsa del padre si fa sempre più fitto e personale.
James Gray, uno dei più sottovalutati registi americani contemporanei, un regista che ad ogni film cambia genere e modo di raccontare, era partito con il noir con Little Odessa, The Yards e I padroni della notte, per poi passare attraverso il film romantico con Two Lowers, il melodramma pucciniano con C’era una volta a New York, l’avventura colonialista di Civiltà perduta, fino ad approdare alla fantascienza. Con Ad Astra, presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2019, Gray scrive e dirige un film di avventure spaziali stupefacente e intimista.
Stupefacente perché – proprio come nella narrativa fantascientifica – racconta il viaggio nello spazio fino a Marte (e poi oltre) e le varie tappe con gusto per l’avventura e la meraviglia, quasi come se fosse una storia di imprese marinaresche. C’è qualcosa di quasi ingenuo e fanciullesco nel modo in cui ci vengono presentati i pirati lunari, i relitti spaziali abbandonati alla deriva, gli ammutinamenti, eppure tutto questo non cade mai nel ridicolo per quanto in un paio di punti il rischio sembri molto vicino. Non a caso i modelli citati sono Cuore di tenebra di Conrad e Moby Dick di Melville. Stupefacente a livello visivo, grazie a notevoli effetti speciali e alla clamorosa fotografia di Hoyte van Hoytema (autore della fotografia di film come Dunkirk, Interstellar e La talpa) capace di mostrarci lo spazio come raramente si è visto al cinema: uno spazio fatto di luce riflessa dai pianeti in colori diversi, luce riflessa sui caschi, sulle atronavi e sui volti. Stupefacente a livello sonoro con le musiche potenti di Max Richter (altro grande compositore proventiente dal minimalismo sinfonico che ha già firmato le musiche di Opera senza autore). Stupefacente anche nell’interpretazione di Brad Pitt (anche nella veste di produttore con la sua casa di produzione) che regala a poche settimane da C’era una volta a Hollywood un’altra grandissima prova d’attore. Il divo (ormai insospettabilmente vicino ai 56 anni) regge tutto il film sulle proprie spalle e sul proprio volto a cui siamo sempre attaccati, e di cui seguiamo ogni passo psicologico senza che nulla perda mai di credibilità. Agli altri grandi attori presenti nel cast, Tommy Lee Jones (nel ruolo del padre), Donald Sutherland e Liv Tyler (che appare pochissimo, ma il cui personaggio è emblematico) è riservato solo un ruolo marginale per quanto comunque significativo, perché tutta la nostra attenzione va comunque a Roy McBride/Brad Pitt.
Infine un film intimista, perché lo spettacolo è al servizio e a favore del racconto del rapporto padre-figlio e soprattutto del racconto di un uomo solo. Il viaggio ha la struttura di una seduta psicalitica: ogni tappa è un’allontanarsi dalla terra per andare sempre piu a fondo dello spazio e di sé stessi; e al termine di questo viaggio c’è il rapporto con il padre, il nucleo delle fragilità umane. Ma è anche un film sulla ricerca di Dio. Se il padre è andato a perdersi nelle stelle per “stare solo con Dio”, il protagonista dovrà decidere cosa fare del suo viaggio e dove cercare la verità di sé e degli uomini.
Riccardo Copreni