Un anno o poco più una famiglia disastrata della periferia di Roma in cui arriva dall’Irlanda una studentessa alla pari. Il padre ha una precedente relazione con figlio 17enne alle spalle, fa il giornalista freelance, è depresso e continua ad avere amanti. La madre fa l’insegnante di danza e manda avanti la famiglia ma si sente poco considerata. Inoltre, i due hanno una figlia di 6 anni che soffre di una forma violenta di asma. In tutto ciò il vicino di casa osserva la vita di questa famiglia che scorre.

C’è un po’ di tutto in questo Vivere di Francesca Archibugi presentato  Fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2019. Scritto dalla premiata ditta Archibugi-Virzì-Piccolo e con protagonista la fedele Micaela Rammazzotti affiancata da Adriano Giannini, ha tutti gli ingredienti tipici del cinema di quella scuola romana: un mix di realismo, dramma, commedia e un po’ di ruffineria sentimentale. Il risultato però, a differenza di alcune gustose opere precedenti della stessa squadra come La pazza gioia, è un’insopportabile sceneggiata piena di colpi di scena, personaggi e situazioni da fiction televisiva, che ricorda al massimo il patinato sentimentalismo del peggior Gabriele Muccino.

La Archibugi si limita a dirigere il traffico, a dare un minimo di ritmo e a guidare gli attori (altrove bravi) che non fanno altro che piangere e urlare in un mondo dove i personaggi maschili sono tutti stupidi e le donne – per quanto forti – sono sempre vittime della stupidità maschile. Un mondo insopportabile dove tutti si vittimizzano. Serve a poco la moraletta finale esplicitata da Marcello Fonte che va a spiegare il titolo del film. Perché come film dice un sacco di cose, urlandole, su matrimonio, paternità, rapporti di parentela, amore, sesso, giovani, religione (la fede della ragazza irlandese è un elemento rappresentato con una povertà notevole), ecc ecc… E tutto suona falso, anche se tra le varie cose dette qualcosa di vero c’è ma è stato detto senza che nessuno se ne sia reso conto.

Riccardo Copreni