L’agente del fisco Harold Crick è una persona molto comune, ossessionata dalla precisione e dai numeri. La sua vita ordinaria viene sconvolta quando, una mattina, sente una voce che descrive continuamente tutte le sue azioni. Sembra una specie di narratore della sua esistenza. Che scoprirà esistere davvero: una scrittrice, Kay Eiffel, che da anni cerca di terminare il suo nuovo romanzo, che ha per protagonista un certo Harold Crick, agente del fisco… E i protagonisti dei suoi libri hanno una caratteristica: muoiono tutti in maniera improvvisa e violenta. Mentre la scrittrice in crisi cerca un modo per far morire il suo personaggio, Harold – che ha scoperto le sue intenzioni – cerca disperatamente di evitare questo epilogo tragico. E nel frattempo, per la prima volta, si innamora…

La storia di Vero come la finzione – diretto da Marc Forster (Monster’s Ball, Neverland) è surreale quanto mai, anche se si innesta su un filone dell’assurdo che il cinema recente ha frequentato volentieri: da Essere John Malkovich a Truman Show, da Il ladro di Orchidee a Se mi lasci ti cancello (tutti, a parte Truman Show, scritti da Charlie Kaufman, che qui però non c’entra). All’inizio, si segue con un certo disagio la descrizione delle manie matematiche di Crick, impersonato dal comico Will Ferrell (forse per la prima volta davvero convincente, pur se in una parte che lo porta a gareggiare con un mostro di bravura inarrivabile come Jim Carrey): con un orologio – oggetto che sarà decisivo, alla fine – che misura ogni cosa, ogni passo, ogni dettaglio della sua vita; con tanto di visualizzazione grafica di questi aspetti numerici che può sembrare una trovata estemporanea, d’effetto, per stupire più che per essere funzionale alla narrazione. Ma con il procedere della storia, questa assume un fascino innegabile; anche per l’irrompere discreto del personaggio di Kay Eiffel, la scrittrice di successo (sciatta, imbruttita, alcolizzata) emarginatasi da anni: una Emma Thompson che da anni non si vedeva sui livelli che la rivelarono agli inizi degli anni 90.

Altra figura decisive è quella interpretata da Maggie Gyllenhaal: la proprietaria di una pasticceria che non paga tutte le tasse, ma solo una parte, per motivi politici; tutto la divide da Harold Crick, che deve sanzionare la sua condotta. Ma l’iniziale ostilità si scioglie in un sentimento travolgente per il grigio funzionario del fisco; fattore ancor più emotivamente forte man mano che si avvicina la possibile morte per mano della scrittrice che sembra avere in mano il suo destino… Mentre un professore di letteratura (Dustin Hoffmann) cerca, con scarso successo, di consigliare sul da farsi il povero Harold. Che si mette in testa di trovare l’irrintracciabile scrittrice per convincerla a cambiare finale…

Una storia stravagante e impossibile sembra dire molto della vita, e della morte: mentre il titolo originale, Stranger than fiction – più strano della finzione – fa intuire come la vita sia più originale di qualsiasi invenzione creativa. È quello che si dipana nel bellissimo finale, in cui la scrittrice dovrà scegliere fra un finale capolavoro, emotivamente forte (che fa commuovere anche la “vittima” Harold) o uno diverso da quello pensato, ma più vero, corrispondente. Se Harold Crick, facendo i conti con la possibile morte, ha visto cambiare la sua vita, una serie di eventi fortuiti e imprevedibili fanno dire alla narratrice che per cose che accadono agli umani come “un caldo abbraccio, una mano amica, segreti detti sotto voce” bisogna ringraziare Dio. Non solo: “E dobbiamo ricordare – dice ancora la scrittrice Kay – che tutte queste cose esistono per salvare la vita. So che può sembrare strano, ma so anche che è vero”. Come ogni vero autore, lei deve accettare che la vita è più grande e imprevedibile della sua idea sulla vita, che il suo personaggio – che ha un destino autonomo – è di più della sua idea sul personaggio. E forse per questo, è giusto lasciargli una chance. Anche a costo di rovinare un finale artisticamente perfetto.

Antonio Autieri