La storia è raccontata in flashback, a parte l’epilogo, dalla protagonista alla psicanalista da cui va in cura. Claire, infatti, è scossa dagli avvenimenti che racconta: divorziata, con due figli, vive male i suoi 50 anni anche se è ancora attraente. Ma non le basta la storia di sesso con Ludo, un ragazzo molto più giovane che la usa e non le dà speranze di una vera relazione. Per spiarlo, crea un profilo falso in Rete di un’alter ego, Clara, che ha meno della metà dei suoi anni: ed è questa 24enne inventata (con tanto di foto avvenente “rubata” a una bellissima ragazza) a conoscere e a intrigare sui social network il giovane fotografo Alex, un amico di Ludo. E anche passando dalle chat al telefono la storia continua, anzi si infiamma sempre più (anche perché ad Alex la voce di Claire sembra molto giovanile). Ma Alex vuole vederla, e Claire non vuole fargli vedere Clara perché teme di perderlo; e al tempo stesso vorrebbe stare con lui… Mentre il groviglio di menzogne creato da lei rischia di far crollare tutto.

Già passato al Festival di Berlino 2019, Il mio profilo migliore (in originale Celle que vous croyez, ovvero “Quello in cui credi”) ha le caratteristiche un po’ cerebrali di tanti film francesi ma pure quel lato sofisticato che spesso li rende intriganti. Safy Nebbou, regista al suo sesto film (ma il primo che esce in Italia), partendo da un romanzo di Camille Laurens racconta una storia solo in apparenza originale nel suo lato “tecnologico”; come pure sul fronte dei film su donne di mezza età in crisi o attratte da ragazzi giovani. Lo fa alternando crudezza (fin dalla prima scena con l’amante Ludo) e schermaglie dialettiche tra paziente e analista, sempre più morbose da parte di Claire che provoca la dottoressa per capire quanto possa coinvolgerla nelle sue travagliate iniziative amorose; con qualche annotazione, però, sociologicamente interessante sulla dipendenza dai nuovi meccanismi diabolici della comunicazione tra persone (come l’ebbrezza nel vedere il “pallino verde”, a segnalare che l’amato è on line). Poi a un certo punto però il film deraglia, prima con una scena piuttosto fastidiosa di “sesso al telefono” – peraltro anche questa per niente originale: e soprattutto poco plausibile, dal momento che la donna si trova in auto e non si fa scrupolo di essere vista da qualcuno – e poi con una slavina di colpi di scena a ripetizione, mal sostenuti dalla sceneggiatura, e di finali in accumulo che rendono il film un polpettone indigesto.

Se l’unico elemento davvero di valore è la prova della sempre intensa Juliette Binoche, ben spalleggiata da Nicole Garcia (meglio come attrice che come regista di opere mai memorabili), il film lascia a desiderare anche nella sostanza drammatica. Perché si fatica a credere a una donna intelligente e colta, professoressa in Università, non sventata ma anche dotata di una certa sensibilità, che non riesce proprio mai a pensare ai due figli – già sballottati negli andirivieni con il padre/ex marito – e vive una crisi adolescenziale così squassante. E perché tutta la passione si innesca su basi narrative davvero fragili (un complimento, qualche battuta, qualche emoticon, un paio di silenzi al telefono) che rendono davvero difficile credere alla felicità, seppur di breve durata, della protagonista.

Luigi De Giorgio