La tensione angosciosa del film di Abderrahmane Sissako, candidato all’Oscar per il miglior film straniero (vittoria sfumata per poco, si direbbe, a vantaggio del polacco Ida), parte da un prologo altamente significativo: un gruppo di uomini su un camionetta con la bandiera nera degli estremisti islamici insegue una gazzella in fuga disperata. Quegli uomini, poi, distruggono statuette di legno con immagini sacre e quindi prendono possesso della città di Timbuktu, nel Mali (dichiarata dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”), dove impongono la legge della sharia, con i divieti più rigidi e assurdamente ipocriti (il fumo, la musica e perfino il gioco del calcio, peraltro amato dagli stessi “combattenti” che discutono animatamente dei loro idoli Zidane e Messi) e gli atteggiamenti sempre più minacciosi, soprattutto verso le donne (che devono coprirsi il capo ma anche le mani, perfino quando puliscono il pesce). Chi non si adegua, viene severamente punito con decine di frustate, se non con la morte (agghiacciante la lapidazione di una coppia). E perfino chi prega, da buon musulmano, non viene rispettato: il buon imam, che manda via i jihadisti dalla moschea perché non è bene entrare in armi in luogo sacro, viene quasi irriso quando difende inutilmente una ragazzina presa in moglie con la forza da un miliziano, mentre nemmeno il canto in preghiera (nella propria casa) è accettato. In parallelo, un pastore e la sua famiglia cercano di tenersi fuori, nel deserto, dalle tensioni della città; nonostante le minacce arrivino fin lì. Ma saranno risucchiati nella spirale di un’orribile violenza.
Quella di Sissako, di anima africana – il regista è nato in Mauritania – ma prodotto con soldi francesi (e vincitore di ben 7 premi Cesars in Francia, ovvero i principali premi del cinema transalpino), è un’opera davvero importante nell’attuale momento storico. E preziosa, perché fa capire come la violenza jihadista degli integralisti islamici colpisca in primo luogo i musulmani (non c’è un solo occidentale nel film) che non accettano il loro fanatismo. Descrivendo un mondo che sembra arcaico e lontano, ma percorso dalla modernità in modo spiazzante (i cellulari, usati anche nel deserto, i giovani che cantano insieme melodie accattivanti pur se a rischio di severe punizioni), Sissako opta per uno stile duro ma a tratti suggestivamente poetico – la partita di calcio senza pallone, geniale sberleffo ai violenti, e perfino una scena di morte che viene inquadrata da lontano in un bellissimo paesaggio di un fiume: struggente bellezza di un “paradiso” che sta per essere travolto dalla violenza – alternando il realismo all’umorismo surreale. Perché la scelta geniale del film è non solo di mostrare l’orrore con sdegno ma di mettere anche alla berlina gli odiosi violenti (per esempio: l’uomo che non riesce proprio guidare l’auto e cerca goffamente un approccio con una donna, sposata, che a parole redarguisce perché “indecente”, è anche colto in flagrante da un giovane “collega” mentre fuma di nascosto; o la scena in cui un ragazzo dovrebbe registrare un video con proclami violenti ma non ce la fa mai perché impaurito e per nulla convinto). Il tutto inframmezzato da momenti quasi stranianti in cui si contrappone la violenza a un’umanità che non la accetta: come la donna tornata dalla Haiti sconvolta dal terremoto, sempre con lo sguardo allucinato, che ferma l’auto dei “soldati”). Mentre a contribuire a un quadro di follia a tratti perfino comica e di incomprensioni fatali c’è una babele linguistica tra persone che parlano in francese, nella lingua del Mali, in un arabo che pochi capiscono e perfino in inglese. Con il risultato che spesso deve intervenire un traduttore o che addirittura per scambiarsi poche parole si assistano a comici quadrilateri con quattro persone che dipendono l’uno dalla traduzione dell’altro.
Non tutto scorre liscio – il fatto scatenante che rovinerà la famiglia dei pastori è un po’ troppo banale: una controversia tra persone “normali”, a dire che la violenza può colpire chiunque, per semplici questioni di “territorio” e di bestiame – e il ritmo è un po’ troppo languido per lo spettatore non motivato. Ma sarebbe un errore fermarsi ai pochi difetti di un film che è tra i più importanti e, come si diceva una volta, “necessari” tra il 2014, quando andò in concorso al festival di Cannes, dove peraltro scandalosamente non vinse nulla (se non il premio non ufficiale della Giuria Ecumenica, che mette al centro il dialogo interreligioso), e il 2015 in cui si è rifatto con premi e riconoscimenti in giro per il mondo. Perché Timbuktu, come pochi altri film, raffigura un mondo in cui l’innocente è sopraffatto da violenti che cercano appoggio in regole che non sanno giustificare. E di cui intimamente, alcuni, sembrano vergognarsi: come il giudice che condanna a morte un padre di famiglia e che dice al traduttore quanto sia profondamente addolorato dal fatto di lasciare una figlia piccola senza padre. Ma che aggiunge che quest’ultima frase è meglio non tradurla al condannato: esempio agghiacciante di un mondo dove la pietà è parola sconosciuta; e anche chi ha un soprassalto di coscienza lo sopisce in fretta.
Antonio Autieri