Per questo film, su cui ci sono pareri molto discordanti tra di noi, due differenti recensioni.

Perché SI

Vincitore, oltre che del premio per la miglior sceneggiatura nel palmarès ufficiale, del premio Signis dalla giuria ecumenica alla Mostra del Cinema di Venezia 2013 (“Perché offre un intenso e sorprendente ritratto di una donna resa libera dalla fede. Nella sua ricerca della verità sarà sollevata dal peso di un’ingiustizia subita grazie alla sua capacità di perdonare”), il film di Frears è però anche facilmente inseribile, per molti versi, nella scia di tanti film anticattolici di “denuncia delle malefatte della Chiesa” (come il tanto discusso Magdalene di Peter Mullan, esso pure vincitore di un premio, in questo caso il Leone d’Oro, a Venezia) che cavalcano l’onda di un’indignazione in parte legittima, ma spesso condita di volute e ideologiche esagerazioni.,Philomena (ispirato al volume di Martin Sixsmith The Lost Child of Philomena Lee) è un oggetto molto più complesso di quello che potrebbe apparire a una prima visione e, nel suo mescolare gli elementi più d’effetto del racconto strappalacrime (il bambino rapito dalle suore cattive, la madre affranta in ricerca, il destino altrettanto drammatico del figlio perduto con tutti i cliché del gay perseguitato, ecc.) con una continua riflessione sulle modalità del racconto e sulle inevitabili manipolazioni delle cosiddette “storie vere”, può (e dovrebbe) diventare lo spunto di una riflessione più ampia su un intero genere che trascenda il caso particolare.

Fin da Venezia si è discusso in Italia e altrove (molto forti le polemiche che hanno accompagnato la distribuzione americana della pellicola) in ambienti cristiani sulle intenzioni e la fondatezza della storia, discussioni che hanno coinvolto la stessa Philomena Lee che ha pubblicamente sostenuto la sostanziale correttezza della narrazione al di là delle inevitabili (?) libertà artistiche è in questo senso molto istruttivo.

Non si sbaglia dicendo che il film di Stephen Frears (e la sceneggiatura da cui è tratto) sono un’opera anticattolica e che a questo scopo esagerino i dati fattuali (non corrisponde a verità che le suore “vendessero” i bambini, e in generale le loro figure sono rese più “cattive” e crudeli di quanto risultino dal libro stesso). Eppure, come tutte le opere intelligenti (e questa lo è), Philomena finisce per eccedere le (probabili) intenzioni dei suoi autori: questa pellicola, se osservata e goduta in profondità, invita lo spettatore a porsi delle domande sulla natura e la fondatezza delle sue posizioni. Le esilaranti comunicazioni tra Martin e la sua editrice (una donna che vive di storie scandalistiche e strappalacrime, che si preoccupa quando lui vuole andare troppo sul sottile nella storia), ma anche le riflessioni sui cliché narrativi generati dai riassunti ben poco riassunti che Philomena fa dei suoi romanzi preferiti, sono a ben vedere un implicito richiamo allo spettatore alla retorica e i cliché più o meno nascosti che ogni presunta “storia vera” contiene. Qui, se dovessimo cercarli, troveremmo questi cliché soprattutto nella descrizione alla Philadelphia della storia del figlio di Philomena. Ma ancora di più in alcune significative omissioni: che fine ha fatto il bello sconosciuto che ha precipitato Philomena in tutti i suoi guai mettendola incinta? E chi è l’uomo che ha sposato ed è diventato il padre della sua figlia legittima? E, cosa forse ancora più importante, cosa e chi le ha permesso di conservare la fede in Cristo e nella Chiesa al di là delle sue molte contraddizioni?

La vicenda del film, per altro, oltre che degli interrogativi sul destino del bambino, vive moltissimo del rapporto tra l’anziana signora, nonostante tutto ancora molto credente e perfetta rappresentante del ceto popolare britannico che si nutre di tabloid e di letteratura rosa di scarso spessore, e il giornalista Martin Sixsmith (uno splendido Steve Coogan, in una performance ingiustamente messa in ombra da quella di Judi Dench), intellettuale liberal, sofisticato e anche un po’ snob. Un uomo la cui voglia di verità sembra nutrirsi solo di rabbia e indignazione, ma che fatica a trovare qualcosa di positivo in cui credere. Il loro viaggio di scoperta presenta numerosi e gustosissimi intermezzi comici (che controbilanciano il tono melodrammatico della vicenda); e il modo in cui la loro interazione cambia entrambi è forse quanto di più prezioso ci lascia il film. Alla fine, peraltro, chi ha più da imparare non è la vecchia signora dalla fede semplice e ingenua e dai gusti letterari discutibili, ma l’intellettuale sofisticato e rabbioso, sull’orlo della depressione, che forse ha bisogno di scoprire che c’è qualcosa di più in cielo e in terra della sua filosofia: la ricerca della verità, senza la capacità di perdonare il male subito e senza la speranza di un Destino buono, diventa una maledizione anziché la possibilità di una reale liberazione. Per usare un’efficace espressione di qualcuno che di sicuro non gode delle simpatie degli autori, ciò che serve al cuore umano è “la carità nella verità”.,In questo caso, più che in molti altri, ciò che la pellicola può comunicare è affidato al discernimento e alla libertà di spirito di ciascuno spettatore. E saranno molti che senza troppa fatica interpreteranno Philomena semplicemente (e semplicisticamente) come l’ennesima furba denuncia dell’oppressione cattolica. Ma se si vorrà guardare oltre, non per ingenuità ma per fedeltà al vero, sarà l’occasione per interrogarsi a fondo sulla possibilità della fede e del perdono.

Laura Cotta Ramosino

Perché NO

Mancavano solo gli artigli, le unghie sporche e la lingua biforcuta e il ritratto della strega era perfetta. Dico, la suora-strega. Perché stiamo pur sempre parlando di suore, conventi prigioni dell’Irlanda degli anni 50. Insomma, Stephen Frears che pure è un autore che amiamo molto, con tanti bei film e pure equilibrati in un curriculum che alterna prova indipendenti e produzioni hollywodiane (ricordiamo e con piacere Le relazioni pericolose, Eroe per caso, The Queen e lo splendido Piccoli affari sporchi) stavolta ci va giù pesante. Non lo aiuta certo la sceneggiatura di Steve Coogan, che è qui anche il bravo coprotagonista della solita mostruosa Judi Dench e che non lascia molto spazi a dubbi nonostante qua e là il suo personaggio affermi il contrario. Da un lato ci sono i cattivi che sono segnati a dito e con cui è impossibile qualsiasi forma di dialogo: le suore dai metodi da Gestapo non sono cambiate, anni dopo. È cambiato solo lo stile, più mellifluo e ugualmente diabolico di queste suore maledette (e che lo stesso Coogan apostrofa generalizzando un poco con un efficace “fucking catholics”). Sono sempre quelle. Ti fregano il figlio, ti trattano da schiava, ti tengono segregata in una vera e propria prigione. Che la povera Philomena abbia conservato la fede e che tipo di fede, non è dato sapere da una sceneggiatura che salta qualche pezzo per strada (se è per questo non è dato sapere nemmeno che fine abbia fatto il marito di lei e pure il ragazzo che con lei ha causato questo disastro del bimbo non voluto). Coogan ci va giù pesante e Frears lo asseconda dimenticandosi lo stile equilibrato e l’approccio realistico dei suoi film migliori e usando trucchi grossolani per dar forza a quella che è una vera e propria tesi: luci soffocate e colori spenti nella prima parte per sottolineare la tortura della protagonista, un casting di brutti ceffi per gli ecclesiastici. Super ellissi di qualche decina di anni e si entra subito in medias res: l’incontro casuale tra la Dench e il giornalista cinico interpretato da Coogan e, sì, la decisione di quest’ultimo di prendere sul serio la storia (vera) raccontata da Philomena. Ed è una storia che fa accapponare la pelle allo spettatore.

Abbiamo dei dubbi, non tanto sulla vicenda alla base del film a cui crediamo e che ci fa star male. Abbiamo dei dubbi su scelte di sceneggiatura che non lasciano altre possibilità (davvero, neanche una religiosa si dimostrò umana nei confronti della protagonista?). Certo, c’è un piccolo personaggio che dà una mano alla giovane Philomena ma quello che fa è davvero poca cosa e viene da chiedersi davvero come una donna così torturata e oppressa abbia solo pensato di conservare la fede. Si dirà: la fede è una grazia e non deve essere giustificata. Ed è vero, ma è anche vero che la coppia Frears/Coogan fa di tutto per mostrarci una donna tanto forte delle proprie convinzioni personali quanto distante dall’esperienza comunitaria cattolica: i preti, quelli “buoni”, per dir così sono distantissimi da lei e mai influenti nella sua vita e nelle sue scelte. È come se Frears avesse voluto lanciare il macigno e nascondere la mano: articola un film in cui tutto è decisamente una presa di posizione. Non solo contro le suore ma anche contro la Chiesa e il suo pensiero: la vicenda legata all’omosessualità del figlio di Philomena (e che lei quasi presentiva quando lui era piccolissimo: ma stiamo scherzando?) non dà fastidio nel merito e nelle scelte libere e consapevoli di lui, ma nel modo stucchevole con cui la scelta di vita viene presentata al pubblico. Il bel compagno sofferente, la VHS con i momenti più intensi della coppia, la difficoltà di fare outing negli anni 80 di Reagan (e già: lui lavorava pure per il partito sbagliato e omofobo). Insomma, mai termine fu più appropriato: scenari da Mulino Bianco che stonano decisamente con il gotico irlandese di metà film ma non con il tono melodrammatico che percorre tutta la narrazione. Realizzato in modo più furbo di Magdalene, giustamente citato come pietra di paragone per stile e tematiche, Philomena è un pamphlet anticattolico con due personaggi certamente interessanti come quelli di Coogan e della Dench segnati da una dinamica di rapporto fatta di dialogo e anche di prese di posizioni forti come sul finale, ma schiacciati comunque da un contesto che non problematizza e che non lascia adito a dubbi e soprattutto non li lascia allo spettatore.

Simone Fortunato