Nella campagna bergamasca, alla fine dell’Ottocento, alcune umili famiglie di contadini vivono in una cascina che racchiude le loro case, la stalla, la corte. Si lavora tutto il giorno, adulti e bambini, e viene vissuta come una stranezza la richiesta del sacerdote di far studiare un ragazzino particolarmente sveglio. La sera si mangia quel poco che c’è, si prega insieme il rosario, si raccontano e si ascoltano storie divertenti o paurose davanti al fuoco. Passano le stagioni, apparentemente immutabili eppure ogni scelta pesa enormemente. In positivo, come vincere la timidezza e farsi avanti con una ragazza (e, per lei, accettare la corte del goffo pretendente); o anche solo piantare i pomodori prima del tempo e cambiare concime. O in negativo, come quella di Batistì di abbattere di nascosto un albero per fare un nuovo paio di zoccoli per il figlio Mènec, che appunto va a scuola e camminando a lungo ha completamente distrutto gli unici che aveva. Quando il padrone scoprirà i resti dell’albero, le conseguenze per quella famiglia – dov’è appena nato un terzo figlio – saranno tristissime.

Quarant’anni fa, alla sua uscita prima al Festival di Cannes 1978 dove vinse a sorpresa la Palma d’oro e poi qualche mese dopo all’uscita nei cinema italiani (in doppia versione, dialettale con i sottotitoli e “doppiata” dagli stessi attori in italiano), L’albero degli zoccoli fu un enorme choc sulla cultura italiana e un sorprendente successo, pur nei limiti delle difficoltà di visione soprattutto per chi non aveva confidenza con il dialetto lombardo (meglio, bergamasco: oggettivamente ostico per chi non lo conosce). Vi rifulgeva l’amore di Ermanno Olmi per il mondo contadino e per gli umili, nonché le radici cristiane di un popolo abituato ad accontentarsi e ad accettare quello che viene (un figlio inaspettato come un’ingiustizia) confidando nella Provvidenza. Ma non si pensi a un idillio bucolico, anzi: la durezza di quella vita – davvero di altri tempi: e quarant’anni dopo è ancora più lontana dalla memoria dei contemporanei – è mostrata in ogni dettaglio, dalle misere condizioni ai disagi per il freddo; e non mancano le tensioni (il padre che si infuria sempre con il figlio), i problemi (le scarpe rotte), i drammi (i contadini cacciati via dalla cascina).

A rendere indimenticabile l’opera sono poi i luoghi, le scenografie naturali, le musiche di Bach e i canti popolari, le facce di attori non professionisti davvero presi dalle campagne (era ancora possibile, allora) e dalla bassa bergamasca. Anche il sacerdote don Carlo – così attento ai bisogni della sua gente – che pure non era un “alieno” come gli altri attori: era il disegnatore e umorista Carmelo Silva. Tanti i momenti memorabili: il rosario tutti insieme, i racconti di Batistì o di nonno Anselmo, il tenero e goffo corteggiamento di Stefano verso Maddalena, la paura della vedova per la malattia mortale della mucca che sostiene lei e i suoi figli, e poi le preghiere e la sua miracolosa guarigione. Ricordare a quarant’anni dalla sua uscita questo grande e particolarissimo film, spesso riproposto da alcuni canali tv e comunque recuperabile in dvd, permette anche di ricordare la meritoria operazione della Rai che produsse il film e che in quegli anni iniziò a sostenere il miglior cinema d’autore, con scelte molto coraggiose (l’anno prima aveva vinto sempre a Cannes con l’altrettanto difficile Padre padrone dei fratelli Taviani). E soprattutto di ricordare Olmi, grande maestro lombardo e cantore di un’umanità d’altri tempi.

Antonio Autieri