Gli anni Novanta in Puglia sono quelli in cui si afferma, macchiando di sangue tutta la regione, la cosiddetta “quarta mafia”, conosciuta anche come “Sacra corona unita”. La brutalità di questa organizzazione, che si vanta di avere gli stessi requisiti delle sorelle maggiori mafia, camorra e ‘ndrangheta, emerge per contrasto nel titolo del film, alludendo alla mancanza di qualunque codice di comportamento o anche solo di onore di questa compagine criminale, a cui non interessa più nemmeno mascherarsi di falsa rispettabilità. In questo imbruttimento umano e territoriale, c’è però qualcosa che resiste, qualcosa che si tramanda intatto da un’epoca all’altra, da una generazione all’altra. E’ di questo che parla Galantuomini del bravo Edoardo Winspeare, di quel legame che unisce le persone tra di loro e alla loro terra per cui può succedere di mettere in discussione un sistema di valori e perfino la ragionevolezza dei fatti. Lucia e Ignazio si conoscono da quando erano bambini: Lucia (Donatella Finocchiaro, magnifica) appartiene ad una famiglia contadina ed ha sempre vissuto nel suo paese in provincia di Lecce. Ignazio (Fabrizio Gifuni), che da una vita è innamorato di lei, è il rampollo di una famiglia alto borghese, ha studiato a Milano ed è diventato magistrato. Quando si incontrano anni dopo al funerale di Fabio – morto per overdose e con cui da bambini formavano un trio inseparabile – Lucia è diventata la capoclan di una delle cosche che ambiscono a dominare il territorio, e a questo clan portano le indagini che Ignazio conduce partendo proprio dalla morte dell’amico. Alla base di questo conflitto c’è dunque una differenza di classe: Ignazio non ha mai infranto la legge, ma non è per questo diverso da Lucia, né migliore di lei, perché sono state le circostanze (una famiglia ricca, un’educazione borghese, una formazione professionale) ad impedirgli di diventare quello che è diventata lei. Quando difatti prevarranno le ragioni del cuore, il magistrato tentennerà, ridiscutendo le sue convinzioni su cosa sia giusto e cosa sbagliato, senza neanche volerlo o deciderlo ma solo perché quel legame che unisce le persone al di là delle regole sociali lo porterà dove non si aspettava. Lucia, d’altra parte, non è contenta della vita che fa, non si compiace delle azioni che è costretta a compiere, che pure esegue con decisione e professionalità. Non è nemmeno contenta degli uomini che è costretta a frequentare, ma proprio per il bene che vuole al figlio avuto con uno di questi uomini, lavora tanto e lavora bene, anche se questo significa comprare armi dai montenegrini e gestire traffici di droga. Nei confronti tra i due, Ignazio – nonostante lo sgomento iniziale (che lo porterà a pronunciare un insulto che suona ipocrita dall’alto dei suoi privilegi borghesi) – non smetterà di essere un galantuomo, forse per far valere leggi più antiche di quelle scritte, forse per espiare la colpa di aver avuto i vantaggi che Lucia non ha avuto, forse per essersi accorto che il suo passato è una terra straniera che vale la pena esplorare. Se c’è un limite nel film è nel trovarsi abbastanza disarmato di fronte alla resa dei conti di questo dilemma morale, scegliendo una finale aperto che – pur artisticamente accorto – sembra rinviare la domanda su cosa significhi, prima che essere galantuomini, essere uomini.,Raffaele Chiarulli,Raccontare del mondo al mondo (Incontro con Edoardo Winspeare, 28 marzo 2008),Edoardo Winspeare cammina pensoso per via Sparano, a Bari, dove sta girando le scene di uno spot. Non ti immagini così un regista al lavoro: dà le indicazioni ai suoi attori come farebbe un amico saggio, coinvolge in una scena qualche pittoresco passante con il garbo che non ci aspetteremmo da un trascinatore, si entusiasma e applaude come se stesse assistendo alla prova di un altro. Presenza carismatica eppure discreta, il principe gentile del cinema italiano ci accoglie con un sorriso di affabilità sincera quando lo avviciniamo per chiedergli de I galantuomini.,“E’ una storia d’amore che ha come sfondo il Sud, in particolare il Salento, in un periodo, quello a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, in cui perde la sua verginità e da isola felice diventa il territorio della Quarta Mafia. Il film racconta dell’amore tra Ignazio e Lucia, diversissimi già dall’infanzia – quando già si conoscevano – che per via delle rispettive famiglie, quella di lui alto borghese quella di lei di più umili origini, diventano rispettivamente procuratore antimafia e malavitosa. Non potendo valere una legge scritta di fronte ad una storia d’amore così, subentra la legge morale. Si tratta dell’eterno dilemma di scegliere tra ragione e sentimento. Noi meridionali cosa scegliamo? Chi comanda al Sud è la famiglia, e questo ha dei lati positivi e negativi. I rapporti non sono regolamentati dalla ragione quanto dalla tradizione”.,Il racconto di questo Sud che si affida a passioni estreme e ancestrali emerge nei racconti dalla forte vocazione antropologica di altri registi pugliesi. Sicuramente è presente in Placido e in Piva, ma pensiamo soprattutto al Sergio Rubini de L’amore ritorna e La terra. In che modo per un autore meridionale raccontare questa istanza si fa così urgente?,“Noi pugliesi, in un certo senso, ci siamo scoperti da poco. Anche i nostri dialetti (a parte un po’ quello barese) non sono mai stati molto riconoscibili per gli altri italiani. Fino a poco fa sentir parlare un foggiano o un leccese non evocava niente, rispetto per esempio alla parlata di un siciliano, più facilmente individuabile. Inconsciamente c’è come la decisione di definire questa identità. Ma oltre a questa istanza antropologica, che comunque c’è, per quello che riguarda i miei film parlerei di un cinema delle emozioni universali. Non posso non essere d’accordo con Tolstoj secondo cui raccontando del tuo villaggio avrai raccontato del mondo al mondo”.,A proposito di scrittori, in un incontro con i lettori di una libreria, proprio qui a Bari, Emanuele Crialese rispose ad un ragazzo che gli chiese consigli su come diventare un bravo regista, indicandogli le migliaia di volumi che ci circondavano e suggerendogli nel patrimonio letterario mondiale gli stimoli per coltivare l’immaginazione. Le sue fonti letterarie quali sono?,“Crialese sicuramente ha ragione. Per quello che mi riguarda sono un lettore vorace ed onnivoro, mi piace tutto. Sicuramente la letteratura inglese e americana dell’Ottocento e del Novecento: Mark Twain, Steinbeck, Faulkner, Dickens, Stevenson… se devo dire un nome su tutti però senz’altro scelgo Checov”.,Quali sono i registi più amati? I suoi riferimenti più precisi?,“I documentari di Vittorio De Seta per il lavoro sul linguaggio, sui dialetti. Poi tutto il cinema italiano e americano. Mi piacciono molto John Cassavetes e Robert Altman, moltissimo Kieslowski e Truffaut. Non saprei individuare un nume tutelare, ma di certo non posso fare a meno di Kubrick”.,Prima dei Galantuomini, c’era un film molto atteso che stava preparando, La guerra privata del tenente Guillet con Luigi Lo Cascio. Cosa se n’è fatto? Lo vedremo?,“Questo è un tasto dolente. Era un progetto non mio, che mi avevano proposto e che era talmente entusiasmante che non potetti che accettare. La preproduzione era in stato avanzato, erano state scritte quattro stesure della sceneggiatura. Ci ho lavorato per due anni, sono stato anche in Africa due volte, ma si sono messi di mezzo problemi di budget e soprattutto la guerra tra Etipoia ed Eritrea. E’ un progetto che spero di poter riprendere in mano un giorno, ma per il momento non se ne parla. Si è arenato”. ,Tornando alla bellezza del Meridione, come ne restituisce la luce quando lavora con il direttore della fotografia? ,“Paolo Carnera è un direttore della fotografia molto bravo (oltre che di tutti i film di Winspeare, ha curato la fotografia di Tutto l’amore che c’è, L’anima gemella e L’amore ritorna di Rubini, n.d.r.). Se penso a come lavoro sul set, però, non ho delle linee guida particolari, uno stile preciso. Non sono insomma un dogmatico, un Lars Von Trier. Mi piace molto lavorare con i volti, lasciarmi guidare di volta in volta dalla particolarità dei visi, dalle persone. Amo prendere spunto dai personaggi, dalla storia, dal paesaggio. Poi c’è il mio intervento, penso a rendere saturo, ad incupire o ad addolcire, sempre a seconda di dove mi porta la storia”.,Lo sguardo è già e di nuovo sognante, proiettato verso il prossimo orizzonte paesaggistico, il prossimo volto, la prossima luce meridiana. Winspeare ci congeda con un nuovo sorriso amabile e contagioso e ci ringrazia come se fosse stato lui a fare un bell’incontro. Poi si tuffa nell’affetto della sua piccola e festosa troupe.,Raffaele Chiarulli