Terzo film della serie incentrata sul personaggio di Cetto La Qualunque, dopo Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012), diretti sempre da Giulio Manfredonia. Questa volta a Cetto sembra il successo arrida: ha una serie di locali in Germania, una moglie tedesca e una bambina, ottimi affari loschi che prosperano. Ma per una vecchia zia in punto di morte decide di tornare al paese in Calabria. Questa gli rivela che la sua nascita è stata frutto del rapporto di sua madre con un principe locale, per cui Cetto ha sangue blu. Subito agganciato dal circolo borbonico del paese, capeggiato dal conte Venanzio (Gianfelice Imparato), Cetto viene allettato ad aspirare alla monarchia, visto che la Repubblica Italiana è allo sfascio. Appoggiato anche da un cardinale, Cetto si lascia convincere, salvo poi scoprire che è una manovra di Venanzio per prendere il potere.
Che Antonio Albanese abbia notevole talento, è fuori discussione: come maschera comica i suoi personaggi televisivi fanno testo dagli anni ’90; come attore drammatico basta vedere film come Vesna va veloce, Giorni e nuvole o L’intrepido per rimanere impressionati dalla capacità di rendere personaggi complessi con grande naturalezza e credibilità. Spiace vedere quindi come possa far convivere questa parte della carriera con un personaggio tanto stereotipato e poco comico come Cetto, che ormai dovrebbe aver concluso la sua parabola già nel suo secondo, bruttissimo, film. Una sceneggiatura raffazzonata, approssimativa, con personaggi che non vengono minimamente utilizzati al fine della storia (la zia che muore ma sta benissimo, i suoceri tedeschi che lo irridono, il figlio che da bravo amministratore diventa di colpo un invasato da tastiera per appoggiare il padre); dialoghi scarsissimi, poche battute giocate sugli avverbi, e poche le situazioni in grado di far ridere; l’idea che qualcuno possa trovare divertente Cetto che si incorona Re d’Italia (ma per favore). Un finale appiccicato, con un balletto e il rap di Gué Pequeño dovrebbero risollevarne le sorti, ma resistere per due ore e anche pagare il prezzo del biglietto è veramente chiedere troppo allo spettatore.
Beppe Musicco