Per il suo nuovo film Sarah Polley (Away from her, Stories we tell) adatta il adatta il romanzo di Miriam Toews, ispirato a una storia vera ambientata in una comunità mennonita in Bolivia (qui invece ci troviamo nel mezzo degli Stati Uniti) e con il suo lavoro vince l’Oscar come miglior sceneggiatura non originale.

Va detto che l’adattamento avrebbe potuto andare direttamente sul palco di un teatro, considerando quanto l’ambientazione sia contenuta (quasi tutta la discussione tra le donne si svolge in un fienile), dal momento che l’oltre verso cui le protagoniste dovrebbero marciare rimane sempre un orizzonte lontano (al di là di campi coltivati che starebbero benissimo anche in un romanzo di Stephen King, visto che pure qui gli orrori nascosti non mancano…) e il racconto è quasi tutto affidato a scambi più o meno eloquenti di donne che vivono in modo diverso la scoperta di anni di violenze (stupri da parte di fratelli e mariti consumati mentre erano drogate con tranquillante per animali) e sopraffazioni.

Una pentola che si è scoperchiata fuori scena e rischia di richiudersi subito visto che gli uomini sono pronti a riportare nella comunità gli accusati e a richiedere alle mogli/figlie un perdono tutt’altro che spontaneo.

A pesare i pro e i contro delle varie possibilità (restare e combattere, perdonare, andarsene) sono alcune rappresentanti diverse per età, temperamento e vicende personali. La dolce Ona (Rooney Mara), incinta dopo la violenza, vorrebbe rifondare la convivenza tra uomini e donne su nuove regole (lì o altrove) mentre Salome (Claire Foy) è pronta a combattere e a uccidere per vendicarsi e Mariche (Jessie Buckley) non vede alternativa a un perdono forzato. A registrare le discussioni di donne che non sanno né leggere né scrivere il mansueto August (Ben Wishaw), da sempre innamorato di Ona.

Il ritmo teatrale del racconto, appena mosso dalle sortite di due ragazzine presenti, offre alle interpreti grandi occasioni per ben figurare a rischia di esasperare lo spettatore, che poco viene coinvolto in una vicenda e in un mondo di cui sa poco. È difficile andare oltre l’orrore per una situazione dai risvolti estremi e l’architettura sottile della scrittura, benchè ammirevole nell’evocare le sfumature della reazione alla violenza, non è davvero appassionante.

Mentre in altri suoi film la Polley aveva saputo essere calda ed efficace come nel raccontare la tragedia della coppia separata dall’Alzheimer della moglie, qui l’impressione è di accostarsi a un oggetto intellettuale, che nel panorama festivaliero di quest’anno rappresenta la quota #metoo.

Luisa Cotta Ramosino