Si amano molto, lui e lei. Solo questo sappiamo di loro: non i nomi, o da dove provengono, o da quanto stanno insieme. Poi, all’improvviso, vediamo lui morto in un’auto: lei rimane sola, ma fino a un certo punto perché lui continua a girare per la casa, coperto dal classico lenzuolo del fantasma. Ma sappiamo, questo sì, che è lui. Nessuno lo vede, tanto meno lei che soffre, piange, mangia da sola, cerca di tornare a vivere; in una casa da cui, peraltro, lei voleva già andar via con lui; e che ora è destinata a rimanere prima o poi vuota. Ma intanto lei è lì, a volte ospita qualcuno, ma sempre senza dare speranze o confidenze (sempre osservata da lui). Intanto nella casa accanto appaiono altre persone, una famiglia, e lui può “entrare” da un passaggio e vedere che anche lì c’è un fantasma. E poi i fantasmi aumentano, creature silenziose che cercano di rimanere in contatto con i propri cari. Mentre il senso, tragico, di tutta la storia a un certo punto si imporrà.

È un film praticamente muto, Storia di un fantasma, vero cult del circuito festivaliero indipendente e di una critica (ma anche di un pubblico) che ama la cinefilia spinta. Lo ha diretto David Lowery, autore “indie” che dopo tanti cortometraggi e un debutto poco visibile (nel 2009 con St. Nick), si era fatto apprezzare con il successivo Senza santi in paradiso e si era concesso poi una parentesi con un fantasy disneyano per famiglie (Il drago invisibile). Come in Senza santi in paradiso, qui dirige due ottimi attori come Casey Affleck e Rooney Mara, molto affiatati (anche se pochissimo insieme in scena). I pregi non mancano: il film è inquietante il giusto, nel farci provare l’angoscia di chi rimane solo dopo aver perso la persona amata ma anche cercando di farci immedesimare nei sentimenti di chi non c’è più e soffre ancora per chi continua a vivere; magari con un pizzico di gelosia, se teme che si rifaccia una vita. Ed è spesso suggestivo, nel far balenare squarci di passato nei luoghi in cui hanno vissuto i protagonisti, spesso momenti di violenza o di dolore. Lo stile, per il regista/autore/montatore, è quanto di più “artistico” si possa immaginare: pochi dialoghi, sguardi intensi, lunghe scene con estesi piani sequenza in cui sembra non accadere nulla ma si deve cercare tra le immagini il quid; e c’è molta riflessione sull’esistenza, la morte, il tempo.

Ma si potrebbe anche fare della facile ironia sul film, a cominciare da tutti questi lenzuoli deambulanti (con la domanda che ci facevamo già ai tempi di Frank, l’uomo con la maschera d cartapesta sotto cui si celava Micheal Fassbender: ma Casey Affleck è davvero lì o recita qualcun altro?), da una lentezza da film festivaliero che ammazzerebbe anche l’appassionato non fanatico più ben disposto (e infatti il film è circolato pochissimo nei cinema, e non in Italia dove è uscito direttamente su piattaforme online, a partire da Chili), da tanti vezzi autoriali un po’ fini a se stessi. Ovviamente chi ha un po’ di sensibilità, si terrà i pregi e magari sorvolerà sui difetti o li condonerà. Ma – parere ovviamente personale – il talento indiscusso di Lowery (e dei suoi due protagonisti) merita contesti narrativi più riusciti. E che magari non escludano, elitariamente e masochisticamente, la gran parte del pubblico di proposito.

Antonio Autieri