Una precisazione sulla natura del film: si tratta della versione ampliata e conclusa del mediometraggio Sorelle (2006) e nasce dal montaggio di diversi segmenti girati durante il corso di cinema che il regista Marco Bellocchio tiene ogni estate a Bobbio. La storia narra le vicende di due fratelli, Giorgio e Sara Mai, sullo sfondo del loro rapporto di amore/odio con la terra d’origine e la casa di famiglia, dove vivono stabilmente la figlia di lei e le anziane zie (le “sorelle” del titolo). Dalla suddetta dimora i fratelli cercano continuamente di staccarsi, senza riuscirvi: i tentativi di fuga dalla loro storia personale si risolvono sempre in un drammatico ritorno, emblema di un’esistenza subita, soffocante.
Come puntualizza lo stesso Bellocchio, è errato parlare di “autobiografia” a proposito di questo film, che pure, nel raccontare fatti inventati, si serve di immagini provenienti dalla memoria personale e professionale del regista (senza dimenticare che il cast è composto quasi interamente da suoi parenti e amici stretti, e l’ambientazione è la sua città natale). Di carattere sperimentale dal punto di vista tecnico, perché mescola immagini digitali a fotogrammi su pellicola, dal punto di vista dei contenuti l’opera si situa a metà tra realtà e fantasia, in uno stile ora naturalistico, ora evocativo: con un inizio in medias res e senza un finale vero e proprio, la trama si articola in modo lineare ma non rigoroso, e gli episodi in cui è divisa si susseguono semplicemente, come ricordi fugaci di momenti di vita vissuta. E in parte ricordi lo sono davvero, come già accennato, e alcuni sono identificabili come tali anche presso lo spettatore competente in materia bellocchiana: sono molti, infatti, i riferimenti a film precedenti del regista, “nascosti” entro citazioni letterarie o resi espliciti dall’inserimento vero e proprio di frame o sequenze (I pugni in tasca, 1965; La balia, 1999).
In Sorelle Mai, la casa di famiglia costituisce per i protagonisti Giorgio e Sara un passato talmente antico, un mondo talmente ristretto da risultare quasi estraneo, e pesa su di loro sempre allo stesso modo nonostante il tempo che scorre. Elena, la giovane figlia di Sara, rappresenta invece il rapporto equilibrato tra tradizioni e vita presente che i due fratelli non riescono a raggiungere, forse perché inconsapevolmente segnati da quel cognome, Mai, che riassume un destino di “rinuncia forzata alla vita”, alla libertà, di cui le zie sono la personificazione. Il precedente è il leopardiano “natio borgo selvaggio” che già riecheggiava nelle parole del protagonista de I pugni in tasca, opera prima del regista, e che costituiva il tema principale di Vacanze in Val Trebbia (1981).
Data la precisazione iniziale e le informazioni essenziali sulla struttura, c’è da aggiungere che Bellocchio ha definito Sorelle Mai “un film nato per caso”… E un po’ c’è da ammettere che si nota: per quanto convinca il fil rouge che tiene insieme i frammenti, ci sono episodi (quelli relativi ai personaggi dell’insegnante e della misteriosa ragazza innamorata di Giorgio) evidentemente aggiunti in un secondo tempo che appaiono superflui e creano confusione nella narrazione soprattutto verso la fine, se pur si prende atto di una voluta indeterminatezza di fondo. Oltre a questo, si è già parlato di come il conoscitore della carriera del regista venga coinvolto attivamente nel malinconico clima di amarcord che anima il racconto… E lo spettatore “incompetente”? È inevitabilmente tagliato fuori da un film che, nascendo opera prettamente didattica, si presumerebbe essere per tutti.
Maria Triberti