Clareece Jones, l’adolescente di Harlem al centro di Precious tratto dal racconto “Push” di Sapphire, vive in un mondo di orrore. Usa il suo secondo nome, Precious (“Preziosa”), che sembra una provocazione crudele, dal momento che quasi tutti intorno la giudicano inutile. La madre, Mary, interpretata con passione tragica da Mo’Nique (Oscar per l’interpretazione come attrice non protagonista), infligge quotidianamente alla figlia umiliazioni e abusi. La violenza verbale e fisica costante che dirige su di lei sarebbe scioccante anche senza il mostruoso crimine che aleggia sul loro piccolo e sporco appartamento. Precious, grassa e analfabeta (interpretata dall’esordiente Gabourey Sidibe), ha una figlia giovane, ed è incinta per la seconda volta. Il padre è anche il padre di Precious.

Dandoci da subito queste informazioni il film evita le buone intenzioni e un realismo alla buona. Lee Daniels, dirigendo il suo secondo lungometraggio, non ha paura di mescolare stili e generi: Precious è un ibrido che avrebbe potuto essere sgraziato, ma che invece riesce ad essere elegante. Nella sua determinazione di rendere giustizia alla vita interiore di Clareece, nonché per la sua situazione, il regista utilizza sprazzi di fantasia, pennellate di umorismo e ondate di melodramma, nel paesaggio squallido della sua lotta: la bruttezza è tutto intorno a lei, ma proprio lì una bellezza è comunque possibile. In parte è un dramma di redenzione, con un’insegnante laboriosa (Paula Patton) che lotta da sola in un’aula piena di ragazze svantaggiate. Ma è anche la storia di una bambina tormentata dalla crudeltà degli adulti, peggio che in un romanzo di Dickens o in un diario post-moderno.

Ma Precious è anche un film sfacciatamente populista nel suo ricorso all’emotività – e non per nulla la star delle interviste tv Oprah Winfrey è produttore esecutivo – e allo stesso tempo determinato a sfidare la compiacenza del pubblico come solo un’opera d’arte può permettersi di fare. La madre di Precious, piena di rabbia, amore contrastato e meschinità, è un personaggio destinato a provocare disagio: vedere una così totale mancanza di amore materno o compassione è decisamente scioccante. Altre provocazioni sono più sottili ma non meno acute. Non ci sono uomini in questo film. Il padre è intravisto brevemente nei flashback delle violenze su di lei, e nelle sequenze oniriche si vede Precious danzare con giovani ballerini, ma per il resto l’unico personaggio maschile di rilievo è un infermiere interpretato dal cantante Lenny Kravitz. Il mondo di Precious, nel bene e nel male, è composto da donne: l’assistente sociale (Mariah Carey, altra pop star depurata di ogni divismo), l’insegnante Miss Rain, la nonna, le compagne di studi. Questi personaggi possono essere visti come surrogati di madri, zie e sorelle, che insieme circondano la ragazza con una famiglia meno disfunzionale di quella che ha a casa. Ma è anche un affetto, reso possibile dalle istituzioni, basato su sussidi governativi che nel caso forniscono non solo una rete di sicurezza, ma anche una sorta di ancora di salvezza.

Precious – che ha vinto un secondo Oscar per la migliore sceneggiatura non originale – non è, comunque, l’analisi di un problema sociale, ma il percorso doloroso (e parziale) di una auto-realizzazione. Il corpo massiccio di Precious all’inizio è prigione e nascondiglio, ma la ragazza col tempo si dimostra percettiva, in possesso di talenti visibili, ma a chi si prenderà la briga di guardarla davvero: imparerà a camminare eretta, a guardare in alto a cominciare a parlare usando nuovi vocaboli e costruzioni, a stare col proprio figlio. Gabourey Sidibe, che interpreta Precious, è capace di rendere realistico tutto questo, e di farci credere in Precious, almeno quanto lei.

Beppe Musicco

Pubblichiamo anche un approfondimento scritto apposta per noi da Barbara Garshman, sceneggiatrice, produttrice per la rete americana NBC, 5 volte nominata per gli Emmy Award (gli Oscar della televisione), docente alla School of Visual Arts di New York.

All’inizio non volevo vedere il film. Ho tenuto laboratori per adolescenti problematici nelle scuole pubbliche di New York, ragazzi che provenivano dall’ambiente descritto nel film. Sapevo dal lavoro con questi studenti, che avevano a che fare con ogni tipo di violenza, incluso l’incesto, lo stupro, la droga e la mancanza di una casa. Eppure era impossibile recarsi nelle loro case per vedere la realtà delle loro vite. Posso solo immaginare cosa passavano, avendo a che fare solo coi sintomi del loro malessere. Parte di me non voleva essere messa a confronto con quel tipo di realtà. L’altra parte era tentata di origliare a quella realtà. Mi aspettavo che mi deprimesse, non che mi risollevasse. Il miracolo è che, nonostante la violenza, e forse a causa di essa, Precious è un film sulla speranza e sulla possibilità di una ragazza di sconfiggere avversità estreme, per diventare l’essere umano che ci si aspetta di essere.

In America, e probabilmente nella maggior parte dei paesi del mondo, l’incesto e la brutalità attraversano tutte le differenze di razza, religione e status economico. Tuttavia, perché gli autori hanno scelto un ghetto di neri? Avrebbero potuto altrettanto efficacemente mostrare un sobborgo degradato di bianchi. Forse nessuno ha guardato a quel mondo con l’umanità e l’approfondimento che il regista si è permesso. Forse è uno sguardo più facile nel soggetto, perché possiamo dirci che non è il nostro ambiente, non è la nostra vita, così non ci sentiamo a disagio a essere dispiaciuti o preoccupati. Possiamo andare a vedere il film e dirci che è solo una storia. E così non sospettiamo, non abbiamo idea che il regista ci tirerà dentro, ci strapperà le viscere e finiremo identificandoci sorprendentemente con il viaggio di Precious. Perché? Perché noi tutti viviamo in un ghetto che ci facciamo da soli. Tutti cerchiamo di evadere dalle cose che ci rendono piccini e ci impediscono di realizzarci. Così, alla fine del film, è possibile accorgersi che Precious è ognuno di noi.

La scelta degli attori è splendida. Di solito ci si aspetta che il protagonista sia gradevole alla vista, e che i tratti del suo carattere siano interessanti e sensibili, dato che ogni narratore desidera che lo spettatore si immedesimi in esso, che partecipi a quel che gli accade, che sia coinvolto nelle sue scelte. Ecco da dove nasce la rappresentazione. Viceversa, si potrebbe rimanere a casa. Ma Precious è totalmente sgradevole… Sciatta, obesa, nera come il carbone, con occhi così distanti e infossati da riuscire a malapena a vederli. Ha quasi un aspetto animalesco. Strascica i piedi, invece di camminare. Parla raramente. Ma che fa il regista? Ci chiede di guardare attraverso l’esteriorità, per trovare la bellezza e la grazia di Precious. Ci mostra uno sguardo per incuriosirci e sostenerci. Visualizza i pensieri e i desideri di Precious con scene spiritose dai costumi brillanti, che consentono splendidamente di scoprire la vera indole della sua persona. Mette in scena lo stridente contrasto tra il mondo esterno, dove lei tace e pensa di essere stupida, contrapponendolo alla ricchezza e all’intelligenza della sua immaginazione.

In qualche modo, l’abilità di Precious di estraniarsi dall’orrore che la circonda è quello che l’ha salvata dall’essere distrutta da esso. Mano a mano che si fa strada nella vicenda, quando inizia a sentirsi a posto con sé stessa e a capire che vale, anche il suo aspetto cambia. Cammina differentemente. Potete vederle gli occhi, non più sempre rivolti in basso. Inizia ad avere rapporti con la gente e con la vita in generale. I suoi occhi si accendono e in essi brilla l’intelligenza. Il cambiamento è lento, ma drammatico. Come la realtà, per tutti noi. La vita solitamente non cambia perché Dio scende dal Paradiso e con una bacchetta magica cambia le cose. Il cambiamento avviene per piccoli passi, così lenti che a volte a fatica ce ne accorgiamo. Fino a che, un giorno, scopriamo che siamo diversi.,Credo che il miracolo cominci per Precious quando incontra quell’insegnante e quel gruppo di studenti. Per la prima volta non é più sola, non è più invisibile. Gli altri la vedono, la confermano, le forniscono altre esperienze e punti di vista, ampliando il suo mondo e mettendo in crisi ciò in cui è abituata a credere. Sono stati creati dei legami, comincia una comunità.

La violenza è importante nel film, è lo sfondo della sua vita. Il regista vuole che lo comprendiamo, non intellettualmente, ma visceralmente. L’attrice che interpreta la madre è bravissima. Niente viene trascurato. Siamo presi d’assalto, non c’è posto per nascondersi. Nessuna via di fuga ci è concessa per evitare la verità della vita di Precious e la distanza che deve percorrere per spezzare il laccio con cui è legata. L’utilizzo della luce e dell’ombra intensifica questa percezione. Le scene girate nella casa di Precious sono a malapena illuminate, la faccia della madre è spesso avvolta nell’ombra. Ciò che è illuminato appare arido e desolato. Non possiamo che provare timore, perchè non riusciamo a vedere bene. Non c’è modo di capire cosa possa nascondersi dietro all’oscurità di ogni angolo. Come spettatori, veniamo fatti sentire indifesi, vorremmo scappare da quella casa e dalla violenza. Ma ne siamo preda, ipnotizzati. Diventa facile capire perché Precious è costretta a sopportare quello che le accade. I flashback del padre che abusa di lei sono quasi insopportabili da vedere e incitano al rancore fino alla rabbia estrema. Per contrasto, le scene a scuola e gli esterni sono tutti avvolti dalla luce del sole. La contraddizione tra i due mondi è evidente.

Il film non cerca mai una facile via di fuga. I personaggi non sono degli archetipi. Sono caratteri complessi e ben sviluppati. La reazione della madre alle circostanze della sua vita e la sua gelosia nei confronti di Precious sono una storia nella storia e rendono più facile il nostro orrore di fronte alla scelta della madre tra la figlia e il marito che l’ha tradita. Alla fine capiamo che è la sua stessa mancanza di stima in sé stessa che l’ha ridotta così.

Dopo aver visto il film, mi sono ricordata delle parole pronunciate da Nelson Mandela, citando una poesia di Marianne Williamson: «La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere smisuratamente potenti. È la nostra luce, non la nostra oscurità che ci spaventa. Ci chiediamo, chi sono io per essere brillante, stupendo, talentuoso e affascinante? Veramente, chi non dovresti essere? Tu sei un figlio di Dio. Il tuo immiserirti non serve al mondo. Non c’è niente di splendido nel ridursi al punto che la gente attorno a voi non si senta insicura. Noi siamo fatti per splendere, come i bambini. Siamo nati per essere manifestazione della gloria di Dio che è dentro di noi. E questa non è in qualcuno, ma in tutti. E se lasciamo risplendere la nostra luce, inconsapevolmente permetteremo che gli altri facciano lo stesso. Quando siamo liberati dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri».

Barbara Garshman