Un bambino, figlio di un superstite della Shoah (non ci viene detto, ma si vede il numero tatuato sull’avambraccio) è costretto dal padre ad annegare dei gattini in un lago. Cambio di scena: il bambino, ora un uomo maturo, pagaia lungo un canale quando sente lo schianto di un incidente. Abbandona la canoa e sulla strada vede un’auto col guidatore sanguinante, mentre l’investitore è fuggito. Si avvicina al ferito, gli parla e dice di essere un medico, vede che ha una forte emorragia e crea un laccio emostatico con la sua cintura. Ma quando apre la camicia all’uomo e vede i tatuaggi di una svastica e lo stemma delle SS, toglie il laccio e si limita a chiamare un’ambulanza, ben sapendo che l’uomo morirà.
Tutto il film dell’esordiente Mauro Mancini – in concorso alla Settimana della Critica della Mostra di Venezia 2020 – si regge sulla crisi di coscienza di Simone Segre (interpretato da Alessandro Gassmann) che, dopo il suo gesto, inizia a spiare la famiglia dell’uomo, i tre figli rimasti, e offre un lavoro a Marica (Sara Serraiocco), la maggiore, che ovviamente non sospetta chi sia il suo datore di lavoro. Una scelta rischiosa e che obbligherà ancora il medico ad un’ulteriore scelta.
Chiamato a interpretare, nelle parole del regista, «un personaggio ordinario alle prese con una situazione straordinaria», Gassmann prende seriamente l’impegno di rendere un uomo solitario che non sembra avere interessi al di fuori del lavoro e dell’allenamento: nel film il dottor Segre non ha amici, non scambia chiacchiere con i colleghi, frequenta la sinagoga solo quando non c’è nessuno, non ha un affetto né stabile né occasionale e ha un pessimo ricordo del padre. Né la presenza di Marica sembra stravolgere la sua vita, tanto che l’aggressione ai suoi danni del fratello, neonazista quanto il padre e che non sopporta che la sorella sia «schiava di un ebreo», non pare lasciare segni, se non quelli fisici.
Girato con grande eleganza formale e una fotografia perfettamente composta, il film di Mancini ha il merito di sollevare giuste questioni sulla diffusione di un antisemitismo che si nutre di odio gratuito, bramoso di gesti di violenza, ma non possiamo negare che lasci perplessi la scelta di mostrare un medico che si rifiuta di aiutare per questioni ideologiche chi è in pericolo di vita. Confidiamo, per nostra maggior tranquillità, nei dottori che nelle carceri curano indifferentemente mostri e assassini e in quelli che, proprio in questi tempi di Covid, hanno sacrificato la propria vita per salvare perfetti sconosciuti in pericolo.
Beppe Musicco