In un futuro dove è possibile vedere in anticipo il crimine prima che venga commesso (e conseguentemente arrestare il potenziale colpevole) cosa succede se la previsione è sbagliata? “Immaginate un mondo senza omicidi”, è lo slogan della sezione Precrime nel film tratto da un racconto di Philip Dick. Immaginate un mondo che toglie la libertà ancora prima che essa sia esercitata, perché un crimine viene punito prima di essere compiuto. Un sistema perfetto. Creato dall’uomo, ma che trascende l’uomo e lo lascia indietro (“Se c’è un errore, è umano”, dice Danny Witwer ad Anderton). Una pallina scorre rapida in un tubo di plastica, indicando il nome dell’omicida. Le immagini del crimine si rincorrono su uno schermo smisurato e vengono “spazzolate”, perquisite dagli agenti in cerca di indizi, mentre incalzano le note dell’Incompiuta di Schubert (scelta raffinata. E sicuramente non casuale). Pochi secondi, e il “caso” è archiviato, prima ancora che ne esista uno. Un sistema teoricamente perfetto.

Un agente federale viene mandato a caccia di difetti. Entra nel “tempio” (così è chiamata la piscina in cui i Precog dormono in costante stato catatonico), fa domande, pressa per scoprire la verità. Sfrutta tutti gli strumenti razionalmente accessibili per capire dove il sistema crolla. E il sistema crolla perché l’uomo può crollare. Così, il tentativo della Precrime fallisce perché non fa i conti con la libertà dell’uomo: come Lamar Burgess, che arriva a mentire e ad uccidere per difendere il suo segreto. E fallisce Danny Witwer, un personaggio positivo, che sembra prevalere con la sua razionalità, ma che viene eliminato per difendere quel segreto. A testimoniare che la ragione pura non basta, davanti al male. Dall’altra parte, John Anderton. Che ha perso un figlio. Che crede di averlo perso perché nessun umano sistema è stato in grado di impedirlo. Neanche lui. Si dedica anima e corpo al nuovo progetto della polizia, nella speranza di impedire che succeda ad altri ciò che è accaduto a lui. Si può prevedere il male? O esiste uno spazio, grande o piccolissimo, di libertà, in cui ciascuno è chiamato a scegliere? Anderton non capisce l’assurdità del sistema finché non è coinvolto in prima persona. Finché non è posto lui stesso davanti ad una possibilità. Quella che il male esiste e che l’uomo può compierlo. Ripagare il male con il male. La “catena della colpa” di tanta letteratura – specchio dell’umana esperienza – dalla tragedia greca in poi. O affermare il bene. “Tu puoi scegliere”, gli dice Agatha (“buona”, in greco, come buono è il destino, ciò che è pre-visto da Qualcuno per ciascuno di noi). Solo andando fino in fondo alla scelta, all’affermazione del bene, Anderton può iniziare a guardare in faccia tutto il suo dolore, e a stare di fronte alla moglie con occhi nuovi, fino a desiderare insieme un altro bambino. Solo l’esperienza che il destino possiede una bontà ultima, e che non è la somma di fattori prevedibili e prevenibili, permette di riabbracciare tutto, anche il dolore.

Possiamo scegliere. È questo il “rapporto di minoranza”: quella possibilità delicatissima, a volte inspiegabile o fragile che ci è lasciata di aderire ad un bene più grande che ci si fa incontro. Una libertà sempre in rapporto con il divino: quando Anderton sta per cedere al male (“Non esiste alcun rapporto di minoranza, io non ho un futuro alternativo”), è Agatha a ricordargli per cosa è fatto. Possiamo scegliere. E riconoscere la nostra dipendenza nella libertà: “a maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete”, come dice di noi Dante.,Tre anni prima di iniziare le riprese Spielberg convocò un gruppo di futurologi perché immaginassero per lui un 2054 credibile. Che il regista ha poi impeccabilmente dipinto…

Maria Diodati