È naturale avere un moto di simpatia per il giovane Valentin: solo con la nonna, un po’ strabico, costretto a portare vestiti rimediati e ad ascoltare le infinite lamentele della nonna vedova. Valentin è sereno, ha amici tra i coetanei e si confida anche col burbero giovane pianista vicino di casa. Sente la mancanza della famiglia e spera sempre che il papà torni con una ragazza che possa essergli madre, visto che quella vera non se la ricorda nemmeno più. Valentin ha pregi e difetti, come tutti i bambini, a volte è petulante e saputello, a volte è capace di gesti di grande tenerezza, ha sogni grandiosi (molto divertenti gli “allenamenti” per diventare astronauta), soprattutto guarda, giudica e interroga (sé stesso e gli altri) su quello che vede e che accade. Meno riusciti invece nel film sono gli adulti: Carmen Maura è una brava attrice, ma interpreta una persona che, per comportamenti e aspetto, dovrebbe essere molto più vecchia di lei, lo zio e il padre sono bozzetti appena accennati, e quello che sconcerta è proprio come si possa aver eluso le figure dei genitori, della cui assenza non si capisce proprio il motivo. Ed è un peccato, perché le domande che Valentin pone più o meno esplicitamente agli adulti sono lasciate in sospeso, senza neanche tentare una possibile risposta. Addirittura ridicolo il “tributo” al ’68 sudamericano: in una scena decisamente “appiccicata”, un giovane prete riserva l’omelia della messa a “un medico, un uomo dai grandi ideali, il cui fine era aiutare la gente”. Uno pensa che parli del dottor Schweitzer, e invece è Che Guevara..,