Non è certo un tema originale, quello della donna di mezza età che si trova in un momento difficile della sua vita.  La regista (e in precedenza anche attrice) Blandine Lenoir lo ripropone con 50 primavere puntando sulla classe e la grazia di Agnès Jaoui, tra le migliori attrici francesi e spesso anche sceneggiatrice e qualche volta regista (quattro film, tra cui Il gusto degli altri e Così fan tutti). La Jaoui qui è Aurore (titolo originale del film), una donna cui la menopausa appena arrivata scatena, insieme a vampate difficili da sopportare, malumori in serie moltiplicati da una serie di fatti. Già le pesa la sua condizione di separata, con due figlie ormai grandi – una anche incinta – e senza un uomo con cui vivere (mentre l’ex marito si è rifatto una vita e ha altre due figlie, piccole, da un’altra donna); poi ci si mette il nuovo padrone del ristorante in cui lavora, arrogante e prepotente, tanto che a un certo punto lei si licenzia. A quel punto, c’è anche da cercarsi un lavoro (cosa parecchio complicata per una donna della sua età), con tutto il corollario di esperienze tragicomiche cui deve assistere. Infine, riappare nella sua vita il suo primo amore di ragazza, cui lei spezzò il cuore lasciandolo mentre era al servizio militare. È possibile per lei una seconda occasione?

50 primavere, nella sua perfetta durata di 89 minuti, riesce ad accumulare una serie di fatti, personaggi, spunti tali che potrebbe durare anche il doppio. Il ritmo ne risulta scoppiettante, ma  il film manca un po’ di misura (che senso ha, per esempio, la sottotrama dell’amica che maltratta uno sconosciuto per puro sadismo contro il genere maschile, e con cui poi inizierà una storia?). Gli umori altalenanti della protagonista, gli sfoghi, i momenti “no” sono singolarmente ben raccontati anche se un po’ con il pilota automatico, senza troppe sorprese. Più interessante è quando il tema del rimpianto si allarga a sfida per chiunque, a dispetto dell’età: se la protagonista rimpiange la storia troncata bruscamente a 18 anni e anche gli anni in cui le figlie erano bambine (molto tenere le scene in cui lei sogna ancora di ballare con loro), la figlia maggiore le rinfaccia di non aver studiato e di non averla aiutata a superare la sua inadeguatezza; al contrario, sarà una donna anziana a illuminarla su come ogni età possa essere vissuta bene, se si è in pace con se stessi.

Si sorride abbastanza spesso, a volte con un bell’umorismo surreale (madre e figlia che si lavano i denti e bofonchiano parole: noi non capiamo nulla, loro si capiscono al volo; oppure la scena del ristorante per appassionati d’opera, con i camerieri-cantanti che costringono Aurore e Christophe a esprimersi a gesti); talvolta invece in modo amaro (per esempio quando un dottore superficiale bofonchia frasi terribili, davanti alle richieste di Aurore di un rimedio contro gli effetti peggiori della menopausa, come «dopo i 30 inizia la parabola discendente»).

Ma non tutto – a cominciare dalla storia con un altro uomo, vissuta con rassegnata inerzia da Aurore – è all’altezza di una serietà di rappresentazione di un personaggio che, forse, meritava di più; non fosse altro per una Agnès Jaoui splendida, che davvero regge il film con la sua verve e la sua dolce malinconia. E se poco prima del finale c’è stato l’episodio migliore, quello in cui la protagonista trova lavoro in una specie di piccola “comune” di anziane donne che hanno messo insieme soldi e affetti per non vivere da sole, la chiusura sembra contraddire un po’ l’assunto che si andava delineandosi. Ovvero, l’autosufficienza della donna dalle storie amorose. Per carità, ci piacciono sempre i film che non difendono una presunta autonomia. Ma se aveva un senso ribadire il valore e la dignità femminile indipendentemente dal fatto di avere o meno un partner, l’epilogo – con un improbabile, eppure prevedibile, lieto fine a scoppio ritardato di qualche lustro – sembrerebbe affermare il contrario.

Antonio Autieri