Un film affascinante e ricco di ambiguità, di enorme successo a metà degli anni 90, e che allora come oggi non punta la sua forza su spettacolari effetti – e infatti la versione in 3D non aggiunge nulla – ma su altro. In primo luigo, la riuscita caratterizzazione di molti personaggi, non solo il protagonista e le sue comiche spalle, Timon e Pumba, ma anche le temibili iene e il diabolico zio Scar. Ma anche il ritmo concitato e i notevoli momenti musicali; l’alternanza, tipica della Disney degli anni 90 e 00 di registro tragico-melodrammatico e comico; la capacità di essere una favola a tutto tondo e per tutti, dai più grandi ai più piccoli, anche se non eccessivamente piccoli. Sono molte, infatti, le scene potenzialmente traumatizzanti, su tutte la morte di Mufasa, un vero e proprio pugno nello stomaco.

Grande successo negli anni 90 e vincitore, tra l’altro di 2 Oscar, per la miglior canzone e per la miglior colonna sonora, il film della coppia Allers-Minkoff è però anche problematico sia da un punto di vista educativo sia da quello strettamente cinematografico. Narrativamente, la decisione di mostrare apertamente la morte di Mufasa, in una sequenza lunga e altamente drammatica, se indubbiamente colpisce e commuove lo spettatore, è rischiosa per un ragazzino il cui punto di vista coincide totalmente con le paure e poi il terrore del piccolo Simba, colpevole suo malgrado della morte del padre. Stesso discorso per la morte di Scar, dilaniato dalle iene: in questo caso, lo sguardo della macchina da presa è più discreto e si sofferma solo sulle ombre lunghe di carnefici e vittima ma il messaggio è chiaro ed evidente: Scar, il mostro crudele e senza pietà, ha avuto la fine che meritava. Sta qui l’ambiguità educativa de Il re leone: da un lato un bel rapporto tra padre e figlio. Il comprensivo, saggio, buono Mufasa che sa perdonare il figlio anche quando quest’ultimo gli disubbidisce mettendo a rischio la vita dell’intero branco. Una figura e un rapporto che appaiono positivi e significativi, con però un’ombra, altrettanto significativa, quel “mi hai deluso” con cui Mufasa rimbrotta il figlio.

Poi la svolta molto ambigua: una vacanza dalle responsabilità e dai sensi di colpa, più apparenti che reali – la celebre canzone “Hakuna Matata” – e un ritorno alla propria missione dopo un dialogo con il padre nei cieli che lo richiama a guardare dentro se stesso e a ricordarsi chi è, il figlio del re. Una modalità di rapporto a distanza e soprattutto una modalità di azione, comunque da solo, dopo una presa di coscienza in solitaria, tipico della Disney di quel periodo e all’opposto delle vicende raccontate dalla Pixar, imprescindibile pietra di paragone per quanto riguarda l’animazione. Toy Story, che uscì nel 1995 (l’anno successivo al film di Allers & Minkoff), racconta l’esatto opposto. L’unione, meglio l’amicizia che fa la forza e che rende più contenti. Qui, invece, pare la volontà e l’affermazione di se stessi o, peggio, di un’immagine di se stessi a dominare. Non è l’unico momento di ambiguità: anche il tratteggio dei cattivi è significativo. E anche in questo caso la Pixar ci viene in aiuto. In Toy Story e nei film successivi firmati da John Lasseter & Co., i “cattivi” erano figure diventate cattive perché deboli, sole o “scottate” da una dura realtà (come dimenticare l’incredibile commovente figura di Anton Ego, lo spietato critico di Ratatouille o il grosso Lotso di Toy Story 3, incattivitosi perché abbandonato). Più spesso, la cattiveria nella Pixar va a braccetto con la bontà dei protagonisti: in Toy Story, Woody cerca di mettere fuori combattimento il rivale Buzz perché è geloso e invidioso. Cattiveria come debolezza, quindi più che come dannazione nera da cui non ci si potrà riscattare mai. Ne Il re leone, Scar è invece un “cattivo” a tutto tondo. È brutto, sfregiato, debole e vigliacco. Dissimulatore e bugiardo, violento e crudele. È davvero una figura diabolica, nel senso etimologico del termine: divide e allontana il figlio dal padre e dal bene. E finirà malissimo, in una delle sequenze più tragiche dei film Disney che suona tanto come una pena del contrappasso.

Simone Fortunato