Negli Anni Sessanta, in pieno boom economico, un gruppo di giovani speleologi piemontesi si avventura in uno sperduto paesino dell’entroterra calabrese per esplorare una grotta tra le più profonde d’Europa. Mentre per giorni e giorni sondano il buco nel terreno, la vita dei pastori locali prosegue indisturbata.
A undici anni dal suo ultimo film (Le quattro volte), Michelangelo Frammartino ha portato in concorso a Venezia 78 il terzo lungometraggio, aggiudicandosi il Premio Speciale della Giuria. Quello de Il buco è un cinema per pochi e difficile, che richiede un po’ la stessa fatica di chi si avventura in montagna, lasciando che sia la natura a dettare i tempi. Un cinema antinarrativo, costruito con pochi e semplici elementi che si misurano l’uno con l’altro: la piccolezza umana e la vastità della natura, un mondo antico in controtendenza e una modernità galoppante che arriva come un’eco lontana, tra stralci di giornale e varietà televisivi.
Il buco è un film “stretto” ma nel suo piccolo immersivo e immenso, a scapito del nome, perché con pochi e semplici movimenti fa respirare un cinema puro e contemplativo: la natura si estende nello spazio e nel tempo diventando vera protagonista, catturata da a una fotografia curata e stupita (come nella bella scena con le vacche che sbirciano nella faglia, o con le discese negli imbuti di roccia semibui). Spoglio di musica, narrazione o elementi di cartellone, il lungometraggio di Frammartino in fondo è proprio questo: un luogo di pura audiovisione, dove persino i dialoghi sfumano o sfuggono per diventare rumore d’ambiente, in una terra tutta da sondare e contemplare.
Roberta Breda
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