Dai diari dello stesso Guevara e del compagno di viaggio Alberto Granado e coi soldi di Robert Redford, il regista brasiliano Walter Salles, già autore del commosso Central do Brasil di qualche anno fa, trae un film partecipato intorno a quella che sarebbe diventato vera figura mitica della Sinistra degli ultimi decenni. Un road movie attraverso l’America che diventa ben presto un viaggio di coscienza del futuro “Che” di fronte ad una realtà di ingiustizia e di dolore: famiglie comuniste costrette a scappare nel deserto, minatori sottopagati, un popolo di lebbrosi e di emarginati isolati nella foresta, ben lontano dalla società civile. Salles ha a cuore il destino del popolo dell’America più povera e costruisce un finale intenso, con i fermo immagini di volti di popolo, segnati dalla fatica e dall’ingiustizia. E’ questa la sequenza migliore di un film che, pur partendo da un desiderio sincero, cade male nella costruzione del personaggio principale, quell’Ernesto Guevara attorno a cui si dipinge un vero e proprio ritratto idealizzato. Bello, giovane, coraggioso, amante della giustizia e cavaliere a difesa dei bisognosi, amico fedele, figura carismatica, persino guaritore (nella scena dei lebbrosi): è il ritorno del Re. Un surrogato di Cristo, pacifista, buonista, giustizialista, moralista, comunista. Un uomo dipinto senza macchia e senza paura. Mai una caduta o un errore. Facile la domanda: fu veramente il Guevara un uomo simile? E, soprattutto, quale giustizia ha portato al popolo sudamericano? Quale risposta di fronte a quei volti corrugati con cui si conclude il film? ,Simone Fortunato