Un giovane professore di filosofia delle religioni, senza apparente motivo, fa un gesto sorprendentemente violento contro i libri della biblioteca universitaria, inchiodandoli con lunghi chiodi di ferro. Poi scappa, abbandona tutto o quasi – la lussuosa auto e il portafoglio ma non la carta di credito e il computer – e si rifugia in campagna, sulle rive del Po. Dove farà amicizia con gente semplice del popolo, che lo chiama Gesù: una ragazza innamorata della sua bellezza, amici che lo aiutano a costruirsi un’umile dimora, anziani che chiedono compagnia e parole di conforto. Ma la polizia è sulle sue tracce per quella singolare opera di vandalismo.
Centochiodi è un film che divide. Dalle prime proiezioni pubbliche, accompagnate da interviste, incontri, programmi tv, sono scaturite recensioni entusiastiche e stroncature feroci, esaltazioni e perplessità, elogi e critiche. Sul piano cinematografico, religioso, teologico, politico. Un film complesso, che dunque sembra aver centrato l’obiettivo: non lasciare indifferenti, e parlare di Cristo, della fede, dell’uomo, della vita che ha la supremazia sulle idee («c’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri» dice il professore a una studentessa indiana prima del clamoroso gesto; oppure, «tutti i libri letti non valgono un caffé con un amico», come ha dichiarato più volte il regista). Se poi pensiamo che questo dovrebbe essere l’ultimo film di un grande maestro che ha dichiarato di abbandonare il cinema di finzione per tornare agli amati documentari, ci sono sufficienti motivi per analizzarlo con la ponderatezza che merita.
Chi scrive ama e rispetta la carriera di questo grande regista, autore di capolavori come Il posto, L’albero degli zoccoli, La leggenda del santo bevitore, Il mestiere delle armi (anche, ovviamente, di film non riusciti come Il segreto del bosco vecchio e il sopravvalutato Lunga vita alla signora). Ma personalmente non riusciamo a non giudicare quanto meno irrisolto Centochiodi. Dal punto di vista strettamente cinematografico, il film alterna momenti esteticamente notevoli e sequenze suggestive (il ballo al suono di “Non ti scordar di me”, subito seguito da un battello con festa danzante che passa sul fiume, che nella notte ricorda il Rex felliniano di Amarcord; lo sguardo sullo stesso fiume Po, lucente e misterioso; certi squarci figurativi, che richiamano per esempio l’Ultima Cena) a grossolanità insolite per Olmi (tutta la parte iniziale, tra flashback universitari e personaggi grotteschi come il rettore motociclista); ci sono incongruenze pur in un contesto da parabola allegorica (il professore universitario che gira con l’auto lussuosa? Quando va in crisi abbandona tutto, ma si tiene carta di credito e computer?). Raz Degan – ex modello ancora acerbo come interprete – recita discretamente, aiutato dal doppiaggio di Adriano Giannini, ma non tutti gli attori dilettanti del film regalano la freschezza che il loro utilizzo in genere suscita. Alcuni scivoloni, poi, si potevano davvero evitare: possibile che nessun addetto alla produzione si sia accorto del ridicolo involontario della scena in cui il professore, all’università, declama una frase di Karl Jaspers («viviamo in un mondo dove ogni azione si converte in profitto, tutto viene fatto in vista di un guadagno») che stride con il marchio in bella vista del pc su cui è letta? Si chiama product placement, è una pratica perfettamente legittima da qualche anno anche in Italia: ma fare un film pauperista e poi infilare uno spot (questo è il product placement) proprio mentre si attacca la società moderna volgarmente consumista fa sorridere… E in un’altra scena il famigerato computer (sempre con la marca bene in vista) appare altrettanto ridicolo…
Dal punto di vista dei contenuti, il film presenta alcuni interessanti spunti. Soprattutto uno: la rappresentazione di un’umanità semplice, che ama il contatto umano, la compagnia, il bere e mangiare insieme e antepone questa civiltà alla modernità violenta (le ruspe che vogliono spazzar via le abitazioni abusive di chi vive sul Po), e ovviamente la solidarietà verso questi umili. Il tutto, purtroppo, con un fastidioso senso di didascalismo: il cinema è sempre un misterioso incontro di idee, immagini e parole; in questo caso, questo mix è squilibrato, poco convincente, suona nobile ma un po’ troppo retorico (e quindi programmatico, non veritiero). Su questa umanità, fa presa questo personaggio misterioso che a un certo punto sembra davvero un Gesù contemporaneo: affascinante, gentile, incontrabile. Vero uomo.
Ma il contesto in cui si collocano questi spunti è dir poco confuso e alla lunga lascia l’amaro in bocca, soprattutto se è opera di un maestro che ha saputo descrivere in alcuni dei capolavori sopra citati la grandezza della tradizione cristiana. Questo Gesù Cristo moderno – così viene interpretato dagli anziani il professore scappato dall’università – non solo fugge dalla sua realtà, non solo devasta un patrimonio millenario di cultura e ricerca come i libri antichi (va bene, è una metafora: ma anche una metafora può essere violenta e fuori luogo, è questa lo è; figurativamente può essere potente, ma suona inquieta e sinistra), non solo è strumento di un attacco demagogico alle religioni (tutte violente, incapaci di salvare il mondo, ultimamente false: perché questa mancanza di rispetto verso tentativi umani di ricerca del senso dell’esistenza? E anche il Cristianesimo, religione sui generis in quanto rivelata, non è attaccato direttamente ma i suoi preti ne escono malissimo), non solo si conclude con una “tirata” contro Dio («il giorno del giudizio dovrà rendere conto di tutta la sofferenza del mondo») che compiace autorevoli personalità laiciste (come si vede dalle molte interpretazioni, commenti, recensioni entusiastiche) ma non pare proprio l’urlo disperato di chi quel Dio lo sta invocando come Cristo in croce.
Soprattutto, è sì un Cristo umano, che si scaglia contro una fede formale che privilegia l’approccio intellettuale all’incontro carnale. Ma è anche un Cristo che non è Dio e non ha nessuna intenzione di esserlo, davanti al cui fascino nessuno è portato a chiedersi perché quell’uomo sia così diverso e straordinario. E che quando alla fine se ne va lascia quell’umanità sola e triste (come triste è il film), con tanta nostalgia, senza alcuna parvenza di compagnia fondata dal suo passaggio in mezzo a loro. Triste come lo è questo film, che sembra esaltare un’amicizia come fuga da una realtà che non piace piuttosto che strumento per vivere, e magari cambiare, quella stessa realtà.
Antonio Autieri