Non stupisce che uno come Clint Eastwood si sia appassionato alla storia di Chris Kyle (da lui stesso raccontata in una autobiografia scritta a ridosso del ritorno dal suo ultimo turno in Iraq). Non, però, come molti ritengono, per i suoi trascorsi politici repubblicani (e quindi, nell’opinione comune, guerrafondai e di destra). Secondo l’opinione di chi scrive a colpire il regista, già autore di pellicole “di guerra” memorabili come Flags of our Fathers e Letters from Iwo Jima, è stata la possibilità di raccontare un eroe (e Kyle lo è per tanti soldati da lui salvati sulle strade dell’Iraq, con buona pace di chi liquiderebbe le sue 160 – o più – uccisioni considerandole alla stregua di vittime innocenti di un serial killer) “dal di dentro”, lasciandosi condizionare (nel bene e nel male) dalla sua ingombrante presenza di essere umano, dotato di pregi e difetti che la vicinanza dei fatti narrati impedisce di dimenticare.
Rispetto a film per certi versi affini (il primo che viene da citare è The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, protagonista anche lì un soldato molto particolare, uno disinnescatore di bombe la cui vita era appesa a un filo, come quella di Kyle sulla cui testa era stata messa una taglia) la pellicola di Eastwood ha meno l’esattezza di una parabola esemplare o di uno studio teorico (non delle cause/conseguenze della guerra in Iraq, quanto delle conseguenze psicologiche che vivere a lungo in quei contesti hanno sulla psiche umana), e molto più il peso di un’esistenza autentica in cui le cose, gli incontri, le tragedie, gli errori e gli eroismi, hanno una materialità chiaramente percepibile. Kyle, nato in Texas in una famiglia dai valori chiari (vediamo poche scene, tra cui una celebrazione in chiesa, una partita di caccia e un pranzo di famiglia in cui Kyle senior divide il mondo tra pecore, lupi e cani da pastore, lasciando intendere ai figli chi si aspetta diventino loro…), maturato in un concorrente di rodeo dalla vita sentimentale sfortunata, trova la sua missione entrando nell’esercito per difendere la Patria all’indomani dell’attacco alle ambasciate Usa in Tanzania e Kenya. Un luogo dove la sua straordinaria mira gli guadagna un posto da cecchino (“sniper”, in inglese) e un primo turno in Iraq… A “rovinare” la linearità di questo percorso un incontro, quello con Taya, una ragazza forte e appassionata che diventerà sua moglie, la madre dei suoi figli, ma soprattutto l’àncora che impedisce a Kyle di chiudersi in se stesso man mano che le missioni si moltiplicano, le decisioni da prendere diventano sempre più difficili (perché la responsabilità se abbattere un obiettivo potenzialmente pericoloso è sempre in ultimo del cecchino stesso) e la sensazione di non fare abbastanza rischia di travolgerlo.
Il film di Eastwood non è fatto per mettere in discussione la guerra americana (anche se tra i compagni di Kyle non mancano quelli che appaiono meno convinti delle scelte di governo ed esercito) e in qualche modo, condividendo quasi sempre il punto di vista del protagonista (tranne quando, abilmente, lo guardiamo con gli occhi innamorati e preoccupati di Taya), ci “obbliga” a condividere le sue ragioni e i suoi dilemmi, buttandoci al contempo nel mezzo delle azioni in cui Kyle rischia la vita per salvare i suoi compagni d’armi. Un obbligo che entra in competizione con il legame con la sua famiglia, fin quasi al punto di rottura. La regia classica di Eastwood racconta la guerra senza nasconderne la brutalità, ma sottolineando soprattutto lo spirito di corpo tra i soldati che fotografa stando loro addosso, o dall’alto, con riprese che permettono di cogliere la complessità e la pericolosità delle situazioni. Allo stesso modo le scene domestiche sono colte con semplicità, dando spazio al calore, ma anche facendo intuire molto bene il disagio di Kyle al suo rientro in un mondo così diverso da quello delle missioni che sono diventate la sua ragione di vita. È retorica, questa, per alcuni. Per chi scrive, è buon cinema che non ha paura di manifestare un’opinione e di farlo con tutti gli strumenti che la Settima Arte offre ben sapendo di portare avanti un discorso che, se una parte dell’America condivide ed abbraccia, molti altri (e sicuramente una gran parte del pubblico al di fuori degli States) non considerano nemmeno legittimo, per altro senza accorgersi che Eastwood ha ben presente il prezzo che persone come Chris Kyle pagano. Tanto da chiudere il film proprio sulla strada che Chris aveva trovato per uscirne, aiutando i veterani nell’unico modo in cui sapeva farlo, anche se questo in ultimo gli sarebbe costato la vita.
Luisa Cotta Ramosino