1944: nella notte tra il 24 e il 25 agosto, fervono a Parigi i preparativi di ufficiali e soldati tedeschi per un piano segretissimo deciso direttamente da Adolf Hitler. Mentre avanzano le forze alleate, pronte a liberare la capitale francese dall’occupazione nazista, gli uomini del Terzo Reich stanno minando ponti, chiese, monumenti e stazioni, per far esplodere tonnellate di dinamite e scatenare il panico, distruggendo la città e causando milioni di vittime. Ma vediamo subito nella nebbia avanzare una figura chiave: il console svedese Raoul Nordling, nato e vissuto a Parigi di cui conosce a fondo ogni angolo. Come quel passaggio segreto – utilizzato un secolo prima da Napoleone III per raggiungere un’amante – che conduce alla stanza del generale Dietrich von Choltitz, da poche settimane nella Ville Lumière e al quale è affidata la distruzione della città. All’alba partirà l’ordine definitivo. A meno che una notte di schermaglie dialettiche tra i due, giocate sul filo di sottili minacce e rispetto reciproco, fermi l’insensato – e anche inutile, ai fini della guerra ormai persa – progetto hitleriano, concepito per punire una città tanto amata ma che non deve più vivere mentre Berlino, che doveva diventare la nuova Parigi, è in macerie.
L’opera teatrale di Ciryl Gely, che ha adattato anche la versione cinematografica, e poi il film del tedesco Volker Schlondorff hanno il merito di creare tensione su un progetto vero – Parigi doveva essere distrutta dai nazisti – ma ovviamente non andato in porto. Al netto di un certo tasso di retorica («L’esplosione si sentirà fino a Berlino»; «Si sentirà anche fra cinquant’anni») e sulla caratterizzazione monodimensionale della maggior parte dei soldati tedeschi – cosa peraltro comprensibile – le qualità del film sono notevoli. Con un impianto che mantiene l’origine teatrale, e quindi dove la parola ha decisamente il sopravvento sulla scena e sui movimenti di macchina, il regista tedesco classe 1939 riesce a mantenere alta la tensione grazie a un duello verbale continuo tra due giganti come Bordling e von Choltitz (dallo spessore ben diverso dagli altri ufficiali nazisti), che alternano colpi di fioretto e di sciabola, un certo senso cavalleresco dell’onore ma anche bordate e allusioni. Per essere un film di produzione francese, infatti, i “cugini” ne escono malissimo: «Fino a due settimane fa Parigi era la città più docile al nostro dominio, era la collocazione migliore per un soldato tedesco: si doveva lottare solo per il posto al ristorante…» afferma per esempio il generale nazista, che disprezza il comportamento di una popolazione disponibile con l’occupante quando era all’apogeo della forza, e ora pronta a sollevarsi con il vento della guerra ormai cambiato. Mentre il console svedese è abile nel non irritare troppo il generale (che sospetta sia una spia degli alleati e potrebbe farlo fucilare da un momento all’altro). Ma anche onesto nel non saper rispondere alla domanda su cosa farebbe al posto di von Choltitz – che rischia la vita sua e di moglie e figli – se non eseguirà gli ordini del Fuhrer, e suadente nel promettere il suo aiuto per la salvezza del generale e della sua famiglia. Non senza una spregiudicatezza che regala un tocco di acre realismo al finale.
Sicuramente per reggere il gioco servivano due grandi attori. E Niels Arestrup, attore francese di origine danese esploso tardi (si fece notare a sessant’anni, con Il profeta dove era il capo della banda di corsi), e l’esperto André Dussollier, con una ricchissima carriera punteggiata da una classe infinita, sono interpreti perfetti dei due protagonisti. Il loro duello ne ricorda altri nella storia del cinema, come un altro film francese di inizio anni 90 sempre con la Storia sullo sfondo: A cena col diavolo, in cui due giganti come Claude Rich e Claude Brasseur erano i potenti Talleyrand e Fouché che alla caduta di Napoleone disegnano il futuro della Francia con il ritorno della monarchia.
Fa piacere soprattutto che a firmare questo breve ma intenso film sia un regista come Schlöndorff (che curiosamente dedica il film all’amico Richard Holbrooke, grande diplomatico americano che gestì crisi internazionali per decenni, per esempio in Bosnia). La sua carriera fu segnata dall’Oscar vinto per Il tamburo di latta, ma anche dall’esperienza in America, per esempio con Morte di un commesso viaggiatore con Dustin Hoffmann e John Malkovich. Da tempo se ne erano perse le tracce: ritrovarlo è un vero piacere.
Antonio Autieri