Grande film firmato dai fratelli Coen, gli stessi di tanti film memorabili, originali e struggenti, da quella follia divertentissima che è Il grande Lebowski ai noir Fargo e L'uomo che non c'era al tragicomico Fratello, dove sei? in diversi punti richiamato in A proposito di Davis. Come al solito la coppia di registi sorprende per il progetto che sta alla base del film, assai ambizioso, con cui si vuole raccontare attraverso le avventure comico e surreali di un musicista folk spiantato (un immenso Oscar Isaac) combattuto tra l'esigenza di un'autenticità da difendere a tutti i costi e la strada per un successo che non sembra proprio a portata di mano. Film complesso e stratificato, girato con la solita cura maniacale dei dettagli che ha reso classico tanto cinema dei Coen, e coltissimo. Perché, nell'evocare l'atmosfera del Greenwich Village nella New York degli anni 60, i Coen combinano tanti spunti presi dalla realtà e dalla vita di artisti reali con altre situazioni, ai limiti del surreale, tipico del proprio cinema. L'incipit ha una forza e al tempo stesso un'essenzialità rare: un uomo canta una canzone triste e malinconica: è la splendida Hang me, oh Hang me di Dave Van Ronk. E la canta in un modo e con un'intensità che verrebbe voglia di prendere quelle note e quelle parole che parlano di una corda al collo e della fatica di vivere, prenderle e caricarcele sulle spalle e farle nostre. “Se non è mai stata nuova e non invecchia mai, allora è folk”, ci dice quello che sarà il nostro protagonista, Llewyn Davis, che scopriamo di lì a poco spiantato, senza casa, sempre in viaggio da un divano all'altro di suoi amici o presunti tali. Manco un cappotto ha Davis, e fa freddo, fa tanto freddo in questo film cupo e scuro, dove piove quasi sempre e dove quando non piove nevica e ti si congelano i piedi. Cupo e nero, quasi un noir, anzi con alcune situazioni riprese proprio dal genere cinematografico più intimista, riflessivo e contraddittorio per eccellenza, il noir esistenzialista di un Raymond Chandler o essenziale e scabro di un Hammett. I Coen partono da questo, da un uomo di cui conosciamo la voce e le note, eccezionali e struggenti, e pian piano, in una narrazione non lineare che ricorda tanto il viaggio di Ulisse Everett in Fratello, dove sei? (è addirittura il gatto, per un certo punto co-protagonista delle avventure tragicomiche di Davis, a chiamarsi Ulisse) per mettere insieme il ritratto di un uomo e con lui di tutto un mondo, quello del Village degli anni 60, evocato in modo mirabile attraverso pochi ma efficacissimi personaggi. Chi è Davis? Non è un tipo particolarmente simpatico: molto ombroso, solitario, reticente. Parla poco e di solito, quando parla, non dice cose particolarmente intelligenti. Ha pochi amici che con lui condividono una medesima fragilità caratteriale: qualcuno sembra avercela fatta (il Jim Berkey interpretato da un sorprendente Justin Timberlake) che, registrando per la Columbia, sembra aver trovato il feeling giusto col pubblico con delle canzonette o poco più. Altri, come il personaggio struggente e bellissimo di Jane Berkey, interpretata dalla sempre più brava Carey Mulligan, sembrano trovare un equilibrio solo sul palco, mentre la vita pare già averla affossata con tutte e le nevrosi e le complicanze, compreso un figlio in arrivo. Ma sul palco le parole si ricompongono e forse anche il cuore: nella sequenza più bella del film, la Mulligan duetta con Timberlake sulle note di Five Hundred Miles e le parole di questa melodia dolcissima che parla di un viaggio lontano e di un amore perduto, diventano un dialogo con l'ammutolito Davis che assiste tra il pubblico del piccolo locale dove si esibiscono questi artisti. Una piccola sequenza, di rara poesia, con cui i Coen raccontano il rapporto nevrotico, pieno di contraddizioni tra i due giovani e riescono, attraverso proprio la musica, a raccontare la verità e la bontà di quel rapporto oltre le meschinità e gli errori di tutti i giorni. Ma sono tanti i momenti di grande cinema: tutta la seconda parte incentrata sul viaggio a Chicago dal produttore Bud Grossman che Davis vuole incontrare per presentargli il suo disco uscito ma invenduto, l'Inside Llewyn Davis, che è il titolo originale del film, diventa un viaggio intriso di grottesco e umorismo nero, segnato anche dalla presenza di John Goodman, nei panni di un musicista jazz che sbeffeggia la musica folk; il tragico provino davanti a Grossman e i tanti, incontri che affastellano questo film affascinante e sfuggente (tra cui gli ospiti impresentabili della famiglia Gorfein, sul cui divano Davis ha spesso trovato rifugio). I Coen, insomma, mettono insieme il loro solito film personalissimo e impeccabile. Tanto ricco di episodi di cronaca musicale vera (dalla vicenda di Davis che si rifà in alcuni momenti a quella del musicista Dave Van Ronk, al trio formato da Jean, Jim Berkeley e Troy Nelson che riecheggia quello vero di Peter, Paul & Mary al produttore Grossman davvero esistito, quanto originalissimo in un'ispirazione che va oltre la musica fino ad abbracciare tutto l'universo artistico di questi due straordinari intellettuali e uomini di cinema. Stretto tra una vocazione per la musica come espressione di sé e limiti caratteriali che diventano vere e proprie ossessioni come quella di mantenere una propria autenticità contro lo show business, segnato da ferite dolorissime, da un senso di inadeguatezza di fronte alle prove della vita, mal pagato, anzi mai pagato e fragile e sempre indeciso tra la strada complicata dell'arte e quella, grigia e senza prospettive, della vita vera, Davis è davvero lo specchio di questi due fratelli, autori di un cinema originale, riflessivo, poco incline ai compromessi di Hollywood e a volte anche castigato dagli incassi. È davvero un personaggio non facile, a loro somiglianza, un Ulisse perduto e incompreso. E diventa anche l'ombra triste e comica al tempo stesso di tutti quelli che sentono nel profondo una predisposizione pura per l'arte, per la musica, per il cinema ma al tempo stesso vivono l'amarezza di una condizione di vita grigia che sembra non dare mai le soddisfazioni a cui aspirano. Mal pagati, mai pagati, poco considerati, ai margini di tutto. Poco convinti loro per primi come Davis di un talento alimentato dalla passione, insomma incompresi e un po' dimenticati da tutti, ma ugualmente attratti come falene irresistibilmente dalla luce del Bello e del Vero. Proprio come lui, proprio come Llewyn, instancabilmente affascinati da quella luce che dà senso alle cose, compone la loro sensibilità, spiega il loro essere e si staglia come una lama brillante – proprio come nel film, con i momenti musicali illuminati dalla luce in un mondo fatto solo di ombre – nel profondo del loro cuore.,Simone Fortunato,