La realtà tremenda della schiavitù vista attraverso gli occhi di chi, pur condividendo il colore della pelle dei suoi compagni, era nato libero e libero tornerà, seppure dopo anni e sofferenze. Il regista Steve McQueen (già autore dei bellissimi e non facili Hunger e Shame) con notevole austerità ed eccezionale efficacia mette la sua regia al servizio di una storia vera (la sceneggiatura di John Ridley è tratta dal memoir che lo stesso Solomon scrisse sulla sua terribile esperienza), straordinaria nel suo svolgimento, ma purtroppo terribilmente “normale” in un’epoca in cui il possesso dell’uomo sull’uomo era un sistema economico accettato e giustificato. La pellicola merita i tre premi Oscar – tra cui quello per il miglior film – che si è guadagnata (accanto a numerosi premi già vinti in tutto il mondo, dai Golden Globes ai BAFTA) e riesce a trasmettere il senso di un mondo in cui il valore di un uomo può essere ridotto a quello del cotone che riesce a raccogliere mentre la violenza (fisica o sessuale) diventa la norma, soprattutto nella sua forma più sottile ma non meno tremenda, cioè nella distruzione della speranza.
Solomon (che al Nord da cui proviene lascia una moglie, due figli e un mestiere rispettabile da violinista) viene dapprima spogliato dei suoi abiti, poi del suo nome e della sua identità, per vedersi ridotto ad una merce da mettere in mostra, comprare, scambiare ed eventualmente distruggere. Il suo grido, di fronte a chi gli suggerisce di tacere e sopportare se vuole sopravvivere, è quello di un uomo che non accetta questa riduzione (“Io voglio vivere, non sopravvivere”) e la sua è una lotta per mantenere la propria dignità e integrità anche nelle peggiori situazioni. Salomon (rinominato dal suo venditore Platt Hamilton) viene dapprima comprato da un proprietario “gentile” (Benedict Cumberbacht), che ne apprezza e coltiva anche le capacità artistiche (gli regala un violino), ma per cui comunque il pur dotato schiavo non costituirà mai qualcosa di più di un animale da compagnia. Contingenze economiche costringono il primo padrone a cederlo al brutale Edwinn Epps (Michael Fassbender), un uomo che giustifica il proprio dominio con una versione personale delle Scritture e ha un rapporto perverso con la giovanissima schiava Patsey, insieme oggetto del desiderio e della massima violenza del padrone.
McQueen non si tira indietro rispetto ad alcuna delle brutalità largamente documentate del regime schiavistico, eppure riesce nel difficilissimo compito di evitare tanto il documentarismo didascalico che il voyeurismo pornografico del nudo e della violenza. Da questo punto di vista la sua scelta artistica e narrativa si pone agli antipodi dello sberleffo violento e dell’exploitation consapevole del Django di Quentin Tarantino. Eppure 12 anni schiavo è comunque un film molto duro, che richiede un pubblico maturo, sia per la violenza che contiene, ma ancor di più per la tensione psicologica che impone anche allo spettatore, imprigionato nel punto di vista di Solomon, in balia della volontà di uomini spesso crudeli e, anche quando gentili, comunque suoi padroni.
Il sistema schiavista in cui precipita il protagonista riduce gli schiavi a proprietà ma trasforma in profondità anche i proprietari, che nel migliore dei casi distolgono lo sguardo di fronte alla violenza, ma più spesso finiscono per trasformarsi in mostri. Una sorta di violenza dialettica servo-padrone che McQueen considera evidentemente imprescindibile da questo sistema.,Di fronte a questo abisso di male e ingiustizia, il film riesce tuttavia anche a trasmettere in modo limpido e commovente la fede degli schiavi neri, espressa nei canti intonati di fronte alla semplice tomba di uno di loro, e il valore profondo della speranza che rende l’uomo uomo.
Se il nome di Dio e la Bibbia vengono più volte e impropriamente citati dagli schiavisti per giustificare la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, infatti, è invece proprio lo sguardo di Dio che rende gli uomini tutti uguali, bianchi o neri che siano. Una verità universale che Bass, l’uomo che finalmente permetterà a Solomon di ritrovare il proprio nome e la propria libertà, ricorda come inscritta in profondità nel cuore di ogni uomo.
Laura Cotta Ramosino