Due fratelli, uniti dalla musica che li vedeva astri nascenti: questo erano Sergio e Alfredo. Poi il secondo se ne andò lontano, in India, alla ricerca della saggezza in un monastero buddista; e l’altro è rimasto a Napoli, a macerarsi di domande. La notizia, anni dopo, della morte del fratello acuisce le ferite di Sergio, che aveva rinunciato alla musica: ora fa il tassista, e in giro non porta solo clienti con inquietudini o stranezze assortite, ma anche i suoi ricordi, le sue angosce, i suoi incubi. Sotto una pioggia battente che sembra non smettere mai, il taxi è il suo mondo; o meglio, il suo rifugio da esso.,Film di animazione adulto e per adulti, che guarda per il tratto a modelli come i film di Richard Linklater Waking Life e A Scanner Darkly e per l’urgenza e le ambizioni autoriali Valzer con Bashir di Ari Folman, L’arte della felicità è un prodotto anomalo, un alieno nel panorama italiano. Soprattutto per questa ambizione, appunto, di utilizzare l’animazione per temi alti e complessi. Si parla di malattia, di morte, di ricerca della felicità; alla base c’è l’omonimo ciclo di incontri filosofici organizzati da anni a Napoli dal produttore e cosceneggiatore Luciano Stella; e il tema del fratello morto ancora giovane fa parte della biografia di questo vulcanico uomo di cinema a tutto tondo, noto a Napoli e non solo anche come proprietario e gestore di sale cinematografiche (attività condivise un tempo proprio con il fratello Alfredo). Il giovane regista Alessandro Rak, invece, ha un percorso più “tecnico”, proviene dal fumetto e dal mondo dell’arte, e prima di questo esordio nel lungometraggio aveva maturato varie esperienze con corti di animazione ma anche videoclip musicali. Entrambi hanno lavorato all’interno di Mad Entertainment, factory napoletana di giovani animatori: ne viene fuori un film “corale”, dall’anima jazz (anche per le musiche utilizzate, scritte per il film da Antonio Fresa e Luigi Scialdone), pieno di spunti e suggestioni, onirico e visionario nelle immagini e toccante per la sincerità dei toni che toglie quella patina di intellettualismo e cerebralità che rendeva irritanti gli analoghi e già citati lavori di Linklater, pur con dialoghi così densamente filosofici da poter risultare difficili per un pubblico poco concentrato. ,Certo non per tutti, anzi forse per pochi, L’arte della felicità è però un film toccante (che bella la lettera finale che il fratello scrisse a Sergio prima di morire) e che appunto confessa senza pudori le sue urgenze a chi saprà sintonizzarsi sulle sue lunghezze d’onda. Senza spaventarsi per certi squarci apocalittici ma facendosi ammaliare dalla fantasia e dalla sfida lanciata allo spettatore. È raro di questi tempi mettere al centro di una riflessione la felicità, anche se con un fondo di sfiducia sul fatto che essa possa davvero esistere; e con una serenità riconquistata alla fine che può suonare un po’ artefatta. Impossibile, per la scelta di fondo seria e anche dolente, non guardare a questo lavoro con profondo rispetto.,Antonio Autieri,

L’arte della felicità
Un tassista napoletano ricorda il fratello morto per malattia, mentre gira per una città degradata