Gli svariati riconoscimenti ottenuti durante la 72a Mostra del Cinema per L’infanzia di un capo sembravano aver aperto la strada a un nuovo enfant prodige quale Brady Corbet. Invece il suo nuovo Vox Lux, l’anno scorso in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2018, non possiede purtroppo né la comunicatività né la prorompenza del suo primo film. È il 1999 e siamo invitati dalla sontuosa voce di un Willem Dafoe narratore ad assistere alla storia di Celeste, studentessa tredicenne dotata di grande carisma che sopravvive per miracolo ad un attentato compiuto da un suo compagno di classe nella cittadina di New Brighton. Una canzone composta dalla premurosa e protettiva sorella Eleanor e cantata da Celeste durante la veglia in omaggio alle vittime attira l’attenzione di un manager discografico (Jude Law), che trasforma Celeste in una rivelazione della musica pop. Dopo una precipitosa immissione nell’età adulta, rivediamo Celeste nel 2017 nelle vesti di una diva, trentenne distrutta e spaventata dal baratro di droga, alcool e traumi mai superati dentro i quali si è gettata a capofitto.

Nella prima parte Corbet è capace di dare un taglio veramente originale a svariati aspetti di una storia di formazione complessa: con atmosfere cupe e musiche da horror le maglie più strette di un’angoscia esistenziale e del senso di colpa intesi come spinta violenta al successo si mescolano a tematiche di più ampio respiro; l’arrivo di un nuovo secolo sembra infatti voler annunciare una generazione vuota e violenta, che vive nella necessità di deificare sé stessa o i propri beniamini per sopperire ad un divorante senso di perdita dei propri punti di riferimento. E tuttavia tale misurato “ritratto del XXI secolo” – come recita il sottotitolo del film – nella seconda ora si riduce ad un esercizio mal riuscito, precipitando nella convenzionale storia della pop star ribelle e schizofrenica, interpretata da una Natalie Portman veramente troppo sopra le righe: incapace di valorizzare il già inconsistente personaggio di Celeste adulta, non riesce a fornire un buon assist alla Celeste adolescente, a cui il volto della ben più efficace Raffey Cassidy si prestava. Tutto si sfalda, il tentativo di recuperare delle sotto-trame in riferimento al tragico evento iniziale è debole, così come la soluzione trovata per risolvere il problematico rapporto con la figlia e la sorella. Un vero peccato per una storia che, per potenzialità narrative e attualità delle tematiche, avrebbe potuto essere uno dei migliori prodotti dell’anno.

Maria Letizia Cilea