Siamo nel 1985, a Città del Messico, quando facciamo conoscenza di Juan e Benjamin, due giovani amici, studenti non precisamente in pari con gli studi. Juan è intraprendente e sicuro di sé, Benjamin più debole e sottomesso (anche con qualche angheria). Sfruttando il lavoro, per qualche mese, dell’amico presso il prestigioso Museo Nazionale di Antropologia della capitale, Juan gli propone e quasi gli impone un clamoroso furto. È infatti Juan la “mente”, che agisce per noia e frustrazione per la vita che fa (anche in famiglia). Così, nella notte di Natale, mentre la città pensa ad altro, i due entrano nel museo e rubano – con facilità sconvolgente – numerose opere d’arte e reperti (Maya, ma non solo) di valore inestimabile. Poi il problema è piazzarli: con la polizia alle loro calcagna (ma in tv si parla di una banda di pericolosi criminali e di «nemici della nazione, della nostra storia, della nostra eredità», per prendere i quali si offre una forte ricompensa), opere così importanti diventano quasi impossibili da vendere, per guadagnare quei soldi utili a vivere meglio e magari a sistemarsi per sempre… Intanto il Museo, senza le opere più preziose, viene “assaltato” da turisti in cerca di emozioni più che di arte, con presenze record anche per vedere vetrine vuote…

Vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino 2018 per la migliore sceneggiatura, Museo è l’ennesimo film che rivela un potenziale talento provenire dal Messico (dopo la generazione dei tre “amigos” Cuaron, Del Toro e Iñarritu). Quella di Alonso Ruizpalacios, al suo secondo film, è una regia molto mossa, originale, creativa, che mescola tanti elementi e stili, forse anche troppo. E la sceneggiatura alterna toni – da commedia, da azione, da poliziesco – con buona abilità che ci attira subito nella storia dei due ragazzi, così amici e così diversi. Presi da ansia per l’anomala refurtiva da piazzare, Juan e Benjamin fanno errori e strani incontri, ma sembrano non saper fare mai la cosa giusta.

A interpretare i due ragazzi, in quella che l’autore ha definito «una replica della storia originale» (la storia è vera e fece scalpore all’epoca), sono la star Gael Garcìa Bernal (che tra le altre cose fece il giovane Ernesto Guevara ne I diari della motocicletta) e il meno noto Leonardo Ortizgris (era nel film d’esordio di Ruizpalacios, Güeros), che mettono in scena una coppia di amici, diversissimi ma uniti, la cui amicizia viene messa a dura prova da pericoli e scelte da fare. Mentre nel ruolo del padre di Juan ritroviamo Alfredo Castro, ottimo attore spesso utilizzato da registi latinoamericani e prediletto in particolare da Pablo Larraín (nel suo No – I giorni dell’arcobaleno aveva già lavorato insieme a Garcia Bernal).

Il tono e il ritmo del film sono come detto variegati, ma altalenanti e appassionanti solo a tratti. E se è vero che Museo, che parte come un heist movie (i film da “colpo grosso” o “stangata”), a un certo punto diventa un movimentato road movie, con il passare dei minuti la stravaganza delle azioni dei due ragazzi in fuga spegne un po’ l’empatia dello spettatore (e non aiuta la voce fuori campo). Anche il finale, mantiene meno di quanto ci si aspettasse.

Partendo da un contesto ambientale cittadino angusto ma che si apre poi su scenari naturali notevoli, non mancano però squarci visivi notevoli e anche annotazioni argute sull’umanità e sul Messico, sulla sua cultura e sulla sua popolazione tra attaccamento alle proprie radici e superficiale adesione alle mode. Soprattutto, pur con limiti di tenuta narrativa (la foga dell’accumulo a un certo punto rischia di far deragliare il film), l’autore disegna il profilo di due ragazzi di trent’anni fa che potrebbero essere coetanei dei giovani di oggi. Con le stesse inquietudini e lo stesso desiderio di trovare un proprio posto nel mondo.

Luigi De Giorgio