Will e Tomasine vivono in un perfetto equilibrio con il microcosmo naturale dell’enorme e selvaggio parco alle soglie di Portland, in Oregon. Amorevole padre ed ex marine affetto da disturbo post-traumatico, Will è perduto nel suo dolore silenzioso: sceglie di vivere ai margini di quella società che lo ha distrutto in perfetta simbiosi con la propria figlia, adolescente matura perfettamente educata dal padre e addestrata alla sopravvivenza. Quando i due verranno scoperti e segnalati ai servizi sociali, l’Eden selvaggio che li aveva accolti svanirà, mentre la scoperta di un mondo civilizzato inizierà ad incrinare quell’idilliaco rapporto nel quale i due avevano vissuto fino a quel momento.
Al contrario di tutti i survival movies a cui siamo abituati, il nuovo film di Debra Granik ci getta nella problematica sopravvivenza di eroi protagonisti che si muovono in un mondo in cui nulla, apparentemente, sembra essergli ostile. Padre e figlia vivono di quello che la foresta gli offre, raccolgono funghi e acqua, dormono in una tenda al riparo dai lupi e dal freddo ed occasionalmente si mescolano al caos cittadino per fare acquisti di prima necessità; gesti quotidiani e battute minimali sembrano voler costruire una linearità che ha tutto il sapore dell’idilliaco ritorno alla natura, con una camera spesso attaccata alle ambientazioni naturali e uno stile quasi documentaristico. I veri tumulti si trovano invece nel passato e nell’intimità, celati agli occhi dello spettatore finché un trauma esterno non spezza quel microcosmo fragile in cui i protagonisti si erano immersi. Già nel precedente Un gelido inverno, la quasi esordiente Jennifer Lawrence dava voce al proprio dramma esistenziale nella ricerca di un padre scomparso nel nulla: qui è una quasi esordiente – e bravissima – Thomasin McKenzie a costruirsi intorno al dramma famigliare di un padre presente (interpretato da Ben Foster), ma ferito e incapace di vivere nel mondo. Ma il mondo busserà alla loro porta, e i due saranno costretti a riadattarsi ad una vita civilizzata che continua a stare stretta a Will, mentre affascina una curiosa Tom in piena formazione. Questa prima divergenza nel rapporto tra i due sarà il perno intorno a cui si svolgerà il resto della vicenda, che prenderà la direzione di un viaggio di formazione e di sopravvivenza – stavolta nella società – per entrambi.
In modo davvero intelligente la sceneggiatura non si giova della consueta contrapposizione manichea tra la falsità del mondo civilizzato e la bontà della vita eremitica, preferendo mettere in gioco la libertà del soggetto e la complessità dialettica della società: così anche l’apparato statale dell’assistenza sociale con cui i due eroi avranno a che fare non si presenta mai davvero come un cattivo da sconfiggere, ma piuttosto come una delle possibili voci a cui prestare ascolto nella giungla della vita. La Granik cesella gesti e parole donando una veste davvero minimale alla sua opera, evidentemente più interessata all’apparato metaforico della storia piuttosto che a quello politico e ideologico, che più semplicisticamente avrebbe potuto sfruttare. Come in una sorta di Captain Fantastic meno retorico e più viscerale, la vicenda universale di Will e Tomasine, nella sua seconda parte, è però in grado di trattare anche questioni come la delusione del sogno americano e la difficile quotidianità della popolazione che sceglie di vivere ai margini della società.
Un ermetismo di parola talvolta un po’ al limite fa forse perdere quella componente emozionale che è richiesta ad un dramma famigliare di questo calibro, mancando di ottenere fino in fondo il coinvolgimento dello spettatore nelle situazioni rappresentate. Nonostante ciò la profondità dei contenuti resta indubbia e la messa in scena raffinata. La Granik si conferma attenta osservatrice delle vite degli ultimi e magari, anche questa volta, scopritrice di un grande talento come quello di Thomasin McKenzie sembra annunciarsi.
Maria Letizia Cilea