Durante i mondiali di calcio Francia ’98 andò in onda un divertente spot televisivo in cui Ronaldo & Co., improvvisando una partita di calcio, mettevano a soqquadro un aeroporto. Regista dello spot, e coreografo delle spettacolari evoluzioni acrobatiche dei calciatori brasiliani, era un orientale dal viso calmo e dai modi gentili, lo stesso che, dopo aver contribuito a riscrivere la grammatica del cinema d’azione di Hong Kong a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, sarebbe stato arruolato da Hollywood per rinnovare lo stile del genere anche in America. John Woo – un nome d’arte secco e veloce come un proiettile – arrivò a Hollywood in epoca di contaminazioni, all’interno di un sostanzioso carico proveniente dall’Est che comprendeva altri registi anche molto diversi tra loro (l’ipercinetico Tsui Hark e l’intimista Ang Lee) e le star delle arti marziali Jet Li e Jackie Chan. Woo, la cui estetica messa a punto a Hong Kong influenzerà tantissimo il cinema americano degli anni seguenti (senza di lui la trilogia di Matrix, per esempio, sarebbe stata impensabile), diresse su commissione due scatenati “action movie” (Nome in codice: Broken Arrow e Face/Off) prima di essere reclutato da Tom Cruise per dirigere il sequel di Mission:Impossible. ,Se il capostipite era una spy story con un ingranaggio narrativo à la Hitchcock (per cui Cruise, nelle vesti di produttore, volle che lo dirigesse Brian De Palma, il conclamato erede del “maestro del brivido”), per questo secondo episodio – per cui Cruise aveva in mente una sola parola: azione – la scelta fu perfino ovvia. La sceneggiatura di Robert Towne è un puro pretesto, sviluppata su una trama esilissima (il soggetto è di Ronald D. Moore e Brannon Braga) e a tratti perfino irritante (il classico film in cui all’eroe va tutto bene e ai cattivi tutto storto), inferiore a quella del peggior 007. Eppure, la costruzione impeccabile e travolgente delle scene d’azione, ognuna delle quali concepita come un pezzo unico di virtuosismo registico, rende la visione più che piacevole almeno al pubblico degli appassionati. Le sequenze spettacolari, a differenza dei risultati di altri autori coevi (Michael Bay, Simon West), non stancano lo sguardo ma possiedono una solida visibilità che rende lo svolgimento dell’azione assolutamente comprensibile, nonostante la velocità del montaggio. Il tocco di Woo si riconosce nella scelta originale delle musiche, in una certa enfasi melodrammatica assai poco occidentale e nelle coreografie dei duelli, concepite – per stessa ammissione del regista – “come in un musical”. Quest’ultimo particolare va segnalato a conferma dell’ironia dell’autore: non viene mai meno, insomma, la consapevolezza di stare facendo un gioco, di costruire uno spettacolo per divertire un pubblico, disegnare una sparatoria come una danza, “fare della violenza un balletto” (così si espresse già Steven Spielberg a proposito del suo Indiana Jones). Purtroppo (per Hollywood) il talentuoso maestro di Hong Kong troverà sceneggiatori capaci di valorizzare le sue prodigiose doti tecniche soltanto quando, qualche anno dopo, ritornerà in patria. ,Questo film eccessivo, rutilante e fin troppo “tamarro”, va preso così com’è. Soprattutto per la particolarità di essere uno degli ultimi film d’azione rappresentativi di un’epoca – quella, per intenderci, di prima dell’11 settembre 2001 – dopo della quale il cinema d’azione americano non sarà mai più così scanzonato e insolente. ,Raffaele Chiarulli