Firmata dalla penna di Beau Willemon, il creatore della più nota saga di intrigo politico della tv, House of Cards, e diretta da una regista teatrale al suo esordio, questa rilettura in chiave femminista della storia della sfortunata regina di Scozia si porta dietro tutti i difetti della sua concezione “ideologica” a dispetto della magnifica interpretazione della sua protagonista. Se la storia tradizionalmente vede Maria soprattutto come un tragico paragrafo collaterale alle movimentate vicende dei Tudor (la Stewart vantava pretese al trono di Inghilterra, oltre che a quello di Scozia, e con la sua stessa esistenza era una minaccia alla solidità del regno protestante di Elisabetta), Willemon si sforza di dimostrare che il vero problema di entrambe le regine era piuttosto quello di essere donne in un mondo di uomini, che non facevano altro che escogitare intrighi per metterle una contro l’altra.
Il parallelo tra Maria ed Elisabetta è condotto con fastidiosa puntigliosità: una vorrebbe un matrimonio d’amore voluto da Dio (sic) ma finisce per sposare il primo giovanotto intrigante che le fa intravvedere le gioie del sesso che erano mancate con il re di Francia, l’altra si aggrappa ferocemente al suo statuto di “regina vergine” e rifiuta il matrimonio, per evitare di essere sottomessa, ma in realtà langue davanti a un puledrino e alla nostalgia della mancata maternità. Il rischio è che, nonostante l’energia e la luce che Saoirse Ronan (solo l’anno scorso candidata all’Oscar nei panni di un’adolescente ribelle e modernissima in Lady Bird, come peraltro la sua alter ego Margot Robbie per Tonya) porta al personaggio, Maria ondeggi tra momenti di inaspettato genio e altri di incredibile stupidità, tra monologhi teatrali nella messa in scena e nella scrittura e momenti di intimità che si vogliono choccantemente contemporanei (il sesso, il ciclo mestruale).
Se, come è noto, la fine di Maria, dopo anni di prigionia nelle mani della cugina, fu quella di morire decapitata per il suo dubbio coinvolgimento in una congiura “papista” contro Elisabetta, il film in realtà si concentra di più sugli intrighi della corte scozzese e sui maneggi del predicatore protestante John Knox, che contesta la regalità di Maria in quanto donna, attaccandone la dubbia moralità ancor più che la fede cattolica. Di fatto, a parte i richiami di prammatica e un fermo rifiuto di fronte alla prospettiva di un divorzio, la fede di Maria resta una parentesi poco esplorata, salvo tornare prepotente nel finale quando la regina si presenta al boia in un fiammante vestito rosso che la proclama martire della fede anziché traditrice politica.
Accanto ad una messa in scena talvolta smaccatamente teatrale (ma era molto più moderna e coinvolgente quella dell’Elizabeth di una ventina di anni fa), il film cade preda di voglia di contemporaneità esasperata e anche un po’ irritante, visibile nell’improbabile diversity del cast di contorno (un ambasciatore inglese di colore, una damigella inglese dai tratti orientali e via così) e nel plot omosessuale che coinvolge Maria e il suo consorte intrigante quanto sciocco e dai confusi gusti sessuali.
Il risultato, più che provocatorio, rimane a lungo faticoso come una lezione di storia mal digerita, salvo pochi momenti di inaspettata umanità (le confidenze di Elisabetta al consigliere Lord Cecil sul tetto del palazzo reale, il rapporto contradditorio tra Maria e il fratellastro) che faticano a riscattare una pellicola fatta per piacere da un lato agli amanti dell’eleganza d’epoca (i costumi sono magnifici) o a chi condivide a prescindere l’ideologia che lo anima.
Laura Cotta Ramosino