Una giovane donna (Edna Purviance) esce da un ospedale con in braccio un bambino. Una didascalia dice che il suo peccato è la maternità, e un’immagine di Cristo che porta la croce si sovrappone al suo cammino nella dura realtà mondana e moderna degli anni 20. Sconsolata e abbandonata, la madre abbandona il bambino, che presto sarà trovato e adottato da un Vagabondo (il cui nome non viene nemmeno citato, impersonato dallo stesso regista secondo gli stilemi del suo noto personaggio Charlot).

Il monello potrebbe facilmente essere considerato un racconto a sfondo sentimentale sulla riconciliazione padre-figlio, ma l’interesse persistente di Charlie Chaplin per la contrapposizione tra tecnologia e tradizione approfondisce la qualità delle idee espresse nel film, rendendo nuovo e originale un modello fino a quel momento trattato in modo convenzionale ed esclusivamente melodrammatico.

Prendiamo ad esempio come il Vagabondo costruisca tutto un apparato per far dormire e nutrire il bambino, adattando una teiera come biberon e stracci appesi per creare una culla. Nonostante le misere condizioni del Vagabondo, i dispositivi arrangiati con pezzi di recupero sono perfettamente funzionali e servono al loro scopo, proprio come farebbe uno strumento consumistico acquistato con denaro sonante. La sensibilità comica di Chaplin opera in modo simile, facendo derivare la sua ricchezza dalle interazioni insolite (o cinematicamente inesplorate) dei corpi umani. Non servono battute quando l’umorismo della scena discende interamente da imbarazzanti espressioni facciali e oscillazioni del corpo mentre il Vagabondo scopre il mestiere di essere padre. Anche l’esplorazione della soglia tra il piacere e il dolore di Chaplin, in alcune scene, ricorda che il film si apre con la promessa di essere «una rappresentazione con un sorriso e, forse, una lacrima». In tutto e per tutto gli eccessi della vita contemporanea si presentano in modi paradossali: ad esempio, quando serve la colazione, il Vagabondo scarica enormi porzioni di indefinibile brodaglia nel piatto suo e del piccolino, il che dà enfasi visiva alle forme di benessere specifiche della classe; il vagabondo manca di forme di ricchezza legittime, ma può ancora viziare suo figlio secondo i suoi mezzi.

Chaplin invoca il sentimentalismo per dare un senso a un paesaggio urbano in evoluzione, in cui le file di case non forniscono solo posti dove mangiare e dormire, ma nuovi modi di muoversi in uno spazio più ampio. Il suo interesse per questo mutamento culmina quando il suo personaggio è costretto a strisciare e correre sui tetti per trovare il camion in cui John è stato gettato dopo essere stato costretto in un orfanotrofio. La via attraverso i tetti incrocia il percorso del mezzo lungo spazi designati, dimostrando come Chaplin intuisca meravigliosamente le implicazioni del fatto che il povero Vagabondo usi solo le sue forze, la sua volontà e il nuovo sviluppo urbanistico della città, per contrastare il braccio insensibile della legge.

Il melodramma sarà anche la scelta narrativa di Chaplin nella figura del Vagabondo, che si riproporrà nei film successivi, come Il circo o Luci della città, ma funziona ancora meglio qui, dal momento che il fragile rapporto tra genitore e figlio porta il pathos straziante dell’autobiografia, dato che Chaplin girò il film dopo la morte del suo figlio neonato. Che il film finisca con una riunione potrebbe anche essere un’estensione della sua penultima sequenza, dato che Il monello si ritrova nel “paese dei sogni” tra un assortimento di angeli, interpretati da personaggi della sua vita reale (un finale che sarà ripreso anche dal nostro Vittorio De Sica in uno dei suoi film più significativi, Miracolo a Milano).

Ma se questo sia realtà o solo fantasia, sottintende Chaplin, in fondo importa poco. A un secolo esatto dalla sua uscita nei cinema (e ora, scaduti i diritti, visibile gratis su YouTube), Il monello conferma che è proprio qui che il cinema dà il meglio di sé.

Beppe Musicco