Irrompono a sorpresa nelle aule scolastiche, distribuendo volantini e preservativi tra i banchi:“Buongiorno a tutti, siamo ACT UP-Paris, e siamo qui per farvi un corso sulla prevenzione dell’AIDS, perché lo stato francese è incapace di informarvi”. Non usano mezzi termini, il linguaggio è diretto e provocatorio, per scuotere gli animi. È lo stile di ACT UP (AIDS Coalition
to Unleash Power), organizzazione nata a New York nel 1987 per contrastare col coltello tra i denti la diffusione dell’HIV.
A Parigi, ACT UP è rappresentata da un folto gruppo di attivisti (per lo più giovani omosessuali, ma non solo) animato da una forte passione. Oltre alla caratteristica sfrontatezza delle manifestazioni, il gruppo ha maturato anche al suo interno personalissime forme di comunicazione (si schioccano le dita al posto di applaudire, si sibila al posto di gridare) che
sembrano accostare la sua aggregazione a quella di una tribù, con regole e valori distaccati dal resto del mondo. Una condivisione, dunque, che è allo stesso tempo solitudine: perché alla fine nessuno si mobilita per queste persone, e alla fine è sempre la malattia a vincere.
Da questo contrasto prende le mosse 120 battiti al minuto di Robin Campillo, regista che ha lottato in prima persona con ACT UP-Paris negli anni più duri del contagio di AIDS, e che ha scritto la sceneggiatura cercando di restituire il senso di una “polifonia di voci” che, abbandonate dalle istituzioni e dal resto della società, si uniscono in nome di una battaglia comune.
Acclamatissimo al Festival di Cannes, 120 battiti al minuto è il titolo schierato dalla Francia nella corsa agli Oscar 2018. Un film tragico che, accorciato di una trentina di minuti, forse sarebbe stato più fruibile, ma che non lascia indifferenti.
La forza sta nella schiettezza del linguaggio, caratterizzato dalle tinte decise di un paese che ha la rivoluzione nel DNA. Campillo non tralascia nulla del decorso della malattia, soffermandosi spesso sui dettagli scientifici e i sintomi visibili del virus: l’intento è la divulgazione, ma anche la resa di una sofferenza (fisica e non solo) travolgente.
Nel corso della storia, in particolare, l’AIDS assume le sembianze del giovane Sean: volto scavato e occhi guizzanti di vita, fisico gracile e fare irriverente, Sean rappresenta le contraddizioni di una malattia mortale ma spesso invisibile, capace di consumare e insieme far sorgere una rabbia che non trova pace. La personalità di Sean attrae e fa innamorare Nathan, neofita dell’associazione, nonché uno dei pochissimi (l’unico?) sieronegativi a farne parte.

Ogni aspetto della vicenda che li vede protagonisti è trattato allo stesso modo: come è travolgente la malattia, così lo sono il sesso, la droga, la morte, l’amore, e come tali sono raccontati in modo crudo, straziante, senza censure. Registrare 120 battiti al minuto per il film significa vivere (e morire) senza mezze misure. Tuttavia, lo stile sopra le righe del gruppo non sempre appare giustificato: per quanto all’inizio del film gli stessi leader di ACT UP condannino le provocazioni fini a sé stesse, di fatto nella storia assistiamo a manifestazioni violente che spesso, più che gesti disperati, risultano espressioni goliardiche che si fatica a
ritenere accettabili. Questo inficia un po’ la credibilità degli attivisti, i quali con certe azioni sembrano emarginarsi più di quanto già non lo siano, mentre il loro intento sarebbe proprio il contrario: provocare con gesti decisi, per non sentirsi ai margini della società. Soprattutto, la violenza rischia di sminuire o mettere in secondo piano il valore (questo sì, innegabile) delle loro serissime richieste di aiuto. Il bilancio finale è che quella battaglia per una più massiccia informazione in merito all’HIV e all’AIDS e per la tutela di chi era contagiato sembrava una battaglia persa. I malati si vedevano ridotti al loro status di malati, perché la società e le istituzioni li abbandonavano, finché anche loro stessi non se ne convincevano. Dove sta la
persona in tutto ciò? È l’interrogativo amaro posto dal film, che non trova una vera risposta nella realtà dei fatti e ci restituisce dunque un quadro della situazione che rimane aperto a nuovi sviluppi, ma non lascia molto spazio alla speranza.

Maria Triberti