Recensione
Incipit in puro stile action: un personaggio incappucciato scappa per le vie di Roma, inseguito da due motociclisti. Quando, braccato, si ferma, il cappuccio svela il volto di Justin Bieber, che viene massacrato di colpi e stramazza al suolo, non prima di aver immortalato la sua ultima espressione con un selfie. Una carrellata di flashback telegiornalistici colmano il gap rispetto a dove il primo Zoolander ci aveva lasciati: senza svelare troppo possiamo dire che Derek, come anche l’amico Hansel, si è ritirato dalla passerella mentre il perfido Mugatu è rinchiuso nel carcere specializzato per crimini di stilisti. Ma una nuova regina della moda vuole ridare a entrambi la notorietà che meritano, e li convoca a Roma per partecipare alla più grande kermesse fashion del mondo. La trama a questo punto si infittisce perché Melanie Valentina, agente dell’Interpool dell’alta moda che sta indagando sulle misteriose morti delle più importanti pop star, ricollega gli omicidi a Derek Zoolander e lo coinvolge nelle ricerche, con la promessa di aiutarlo a rintracciare il figlio che gli è stato tolto, anche lui casualmente a Roma. Tra l’inadeguatezza del modello a confrontarsi sia con il nuovo mondo della moda, sia con la paternità, la comedy si tinge di tinte thriller con una seconda parte del film decisamente più coinvolgente, oltre che divertente, e un finale che vede la comparsa dei più grandi guru della moda alle prese con situazioni e atmosfere che sbertucciano il Codice Da Vinci.
A 15 anni di distanza da quella che rappresenta una delle ultime pietre miliari di un certo cinema comico, demenziale ma non stupido, torna il pittoresco personaggio di Derek Zoolander: se il film del 2001 aveva il pregio di non mollare mai la presa, proponendo un incessante susseguirsi di situazioni e sequenze davvero azzeccate, qui il ritmo procede come prevedibile un po’ più a rilento, anche se in crescendo. Il rischio di scadere in un carosello di citazioni del primo episodio (amato a quanto pare anche da Terrence Malik), è sempre dietro l’angolo, con tanti momenti che richiamano volutamente parti del primo episodio. Ma gli sketch originali e gustosi non mancano, grazie anche a una girandola di cameo che spesso vanno a segno (su tutti la presenza di Sting, laddove nel primo Zoolander, faceva la sua comparsa David Bowie) e a intuizioni notevoli (come la nuova parodia dei tipici cliché dello spot dei profumi, nonsense e patinati). La sceneggiatura si conferma piuttosto briosa e il personaggio di Zoolander rimane sempre suggestivo: uno stupido-saggio che nonostante la sua dabbenaggine deve essere in grado di reggere e portare avanti un intreccio “giallo”. Lo fa con qualche inevitabile forzatura narrativa che gli si concede volentieri ricevendo in cambio una delirante e spassosa deformazione di alcuni tic e nevrosi della cultura moderna, dalla schizofrenia gender al culto dell’immagine e dell’apparire.
Pietro Sincich